Spoon River qui ed oggi

A centocinquanta anni dalla nascita di Edgard Lee Masters, la sua Antologia di Spoon River resta non solo un capolavoro della letteratura americana, ma anche un testo che dovrebbe essere ripreso ogni tanto in mano e riletto. Non sarà così difficile rivedere immagini attuali in quello che era uno spaccato della vita americana di provincia all’inizio del secolo scorso, possa adattarsi anche alla realtà e ai luoghi moderni. Potremmo trovare quindi sul lavoro, in strada, o magari nel nostro vicino di casa uno dei personaggi dell’immaginaria città di Spoon River che, invece, immaginari non erano. Con una tecnica che si muove tra poesia e Prosa, Masters, racconta la vita degli abitanti di un microcosmo tramite l’epitaffio sulla tomba di ognuno i loro, che diventa una sorta di testamento o lettera di commiato.

Scopriamo così che anche da noi può esistere un Doc Hill che è sempre in giro per curare i propri pazienti pur di non restare in casa con la moglie che lo odia e il figlio rovinato; Ralph Rhodes, il banchiere disonesto e Henry Phipps che era il suo braccio operativo nel lavoro sporco; Sonia la russa che, dopo una vita tra banchieri, nobili e artisti parigini, trova il suo angolo di felicità sposando il mercante di bestiame conosciuto sulla nave. Scene di ordinaria umanità e di vita vissuta che si ripetono in ogni luogo e in ogni momento e personaggi che in poche parole si presentano narrando la loro vita, emozioni, sentimenti. Dal fotografo che conosceva le persone guardandole negli occhi al professore che, da ragazzo, tutti prendevano in giro perché voleva conoscere le stelle, fino al dottor Iseman, che voleva portare la fede cristiana nella medicina e poi condannato per aver inventato un elisir di lunga vita perché, dovendo mantenere la propria famiglia, non poteva continuare a lavorare gratis per i poveri. E molti altri ancora che, alla fine, si sono dovuti incontrare con Jeduthan Hawley che inchiodava, anche in piena notte, le assi delle loro bare. Tutte descrizioni che cerchiamo di abbinare ad un volto mentre leggiamo la storia sulla lapide e in quel volto identificare qualcuno che conosciamo.

Ognuno dei personaggi di Masters ha però un rimpianto per qualcosa che ha fatto o non fatto; un difetto cui voleva rimediare ma il tempo, crudele tiranno dei destini, non gli ha concesso questa possibilità. O forse non ha saputo cogliere il momento per poterlo fare o le circostanze glielo hanno impedito. Il testo è uno specchio anche del sogno americano, di quei paesaggi che sembra non abbiano fine ma che trovano il loro limite negli uomini e nelle cittadine, stavolta non immaginarie, che venivano costruite lungo i percorsi delle carovane verso l’ovest o lungo le linee ferroviarie dove i giovani vedevano i treni andare verso altri luoghi e destini, ma in maniera tragica potevano prendere anche la loro vita, come accadde a Johnnie Sayer, morto sotto le ruote della locomotiva.

L’incipit dell’opera evoca il luogo dove tutte queste storie si incontrano. La collina sulla quale neppure sembra vi siano le tombe o le lapidi dei protagonisti, ma loro stessi che, finalmente, possono narrarsi le loro storie e, forse, finalmente, conoscersi.

Le storie si ripetono ovunque e sembra nulla sia cambiato; anche se le distanze sono annullate, le persone sono le stesse. Ci chiediamo dove siano gli amici morti sul lavoro, in un incidente o una rissa, o in prigione. Eroi veri o semi sconosciuti della vita di una grande o piccola città, tutti dormono sulla collina. E ciascuno continua la propria esistenza mentre il fiume continua a scorrere.

Non si va lontano rileggendo i personaggi di Masters dalle realtà che vediamo ogni giorno. Chi traffica illegalmente e chi tradisce la moglie; i filosofi di strada e il predicatore che si innamora di una donna, ma anche il giornalista che viene riempito di pece e piume (come si usava all’epoca) e vede le sue rotative date alle fiamme perché aveva criticato la giustizia americana colpevole di aver fatto impiccare un gruppo di anarchici, poi risultati innocenti, per l’esplosione di una bomba che aveva ucciso un poliziotto. Si tratta tra l’altro dell’episodio che ha dato origine alla festa del Primo maggio, nata proprio per commemorare le sette vittime.

Non andava bene un epitaffio unico per tutti i cittadini di Spoon River, un luogo piccolo ma dove già si vedeva il melting pot che caratterizza la società americana. Il terrore è però che se ne stia formando, se già non è accaduto, uno unico oggi, specialmente da noi. Come potrebbe suonare in una cittadina italiana che chiameremo Rio del Cucchiaio?

Si lamentò del lavoro, / ma non lo lasciò fino alla pensione. / Si lamentò della politica, /  Ma votò sempre lo stesso partito, e non volle candidarsi. / Si lamentò della moglie, / Ma non divorziò. / Si lamentò degli amici, / Ma giocò sempre a calcetto con loro. / Si lamentò che era obeso, / Ma mangiò ogni giorno tanta pasta, / e non frequentava la palestra cui era abbonato. / Voleva una vita migliore per i figli, / Ma gli fece comprare il diploma, / E trovò una raccomandazione per il loro lavoro. / Si lamentò della TV, / Ma era abbonato a Sky. / Aveva le sue opinioni, / Ma le scrisse solo su FaceBook, / Eliminando i commenti contrari. / Potremmo continuare, / Ma lamentarsi non è fare.

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