Reati e violenza di genere
Un reato non è solo un comportamento previsto e punito dal Codice Penale o dalle leggi che lo integrano; esso è anche – e forse soprattutto – un fatto sociale che incide profondamente sulle emozioni ed orienta il legislatore verso una reazione spesso inopportuna, introducendo nuovi reati laddove peraltro esistono già fattispecie che possono adattarsi ai casi concreti, oppure inasprendo puramente e semplicemente delle pene.
A volte si ha l’impressione che il legislatore assuma un comportamento un po’ pilatesco, limitandosi a sanzionare piuttosto che estirpare il male alla radice e curandosi poco di molti aspetti connessi a categorie di vittime particolarmente deboli.
Perché e che cosa spinge determinate persone a commettere determinate azioni e perché le persone cui sono dirette quelle azioni le subiscono senza reagire, divenendo soggetti passivi di un qualcosa di incompreso e (forse) incomprensibile? È una delle domande che deve necessariamente porsi non solo un giudice nel momento in cui emette una sentenza ma anche un avvocato che debba disporre una difesa, sia essa per l’imputato o per la vittima; ma anche sociologi, psicologi e criminologi devono trovare, per quanto di loro competenza, una risposta. E prima di loro il legislatore.
Per questo motivo opportune e meritorie sarebbero operazioni normative e di intervento preventivo che però non vedono, perlomeno il legislatore italiano, attento e presente se non sulla scorta dell’onda emotiva e per motivazione spesso di natura biecamente politica.
Sicuramente in questa attività – non aiutati dai vari Trattati che si sono susseguiti nel tempo (Pechino 1995, V Conferenza Mondiale delle Donne; Istanbul 2011, Convenzione sulla prevenzione e lotta contro la violenza nei confronti delle donne e domestica; Lanzarote 2017, Convenzione sulla protezione dei minori dallo sfruttamento e dagli abusi sessuali) – in Italia ci siamo limitati ad agire con interventi sporadici, benché mirati, che vanno ad incidere a scadenze temporali diverse o su fattispecie già esistenti o introducendone di nuove.
Si pensi ad esempio alla “Direttiva 2012/29/UE del Parlamento Europeo e del Consiglio del 25 ottobre 2012 che istituisce norme minime in materia di assistenza, diritti e protezione delle vittime di reato che sostituisce la decisione quadro 2001/220/GAI”. Gli Stati membri avrebbero dovuto conformarsi ad essa entro il 16 novembre 2015. In Italia si è intervenuti con il Decreto Legislativo, 212, solamente il 15 dicembre 2015 e quindi un mese oltre quanto stabilito dalla Direttiva.
L’allarme sociale degli ultimi anni ha reso però necessario dare risposte immediate, a volte anche con la non sempre idonea decretazione di urgenza, ad un’opinione pubblica interessata più al clamore – mediatico e politico – che non ad un impegno concreto. Diverse sono state le novelle legislative che hanno sicuramente in buona fede tentato di infondere sicurezza a soggetti deboli ma che purtroppo non salvano vite umane.
Tante, troppe volte veniamo a conoscenza di donne che hanno più volte denunciato (ex) compagni violenti ma che non hanno ottenuto comunque la dovuta e necessaria tutela, vuoi perché la giustizia ha tempi lentissimi, vuoi perché spesso (ammettiamolo a bassa voce) le denunce non vengono prese sufficientemente sul serio. Qui però si dovrebbe aprire un dibattito ben diverso.
Sarebbe interessante allora chiedersi quanto possa essere preoccupato un uomo che ha deciso di pestare una donna dal fatto che il Questore lo abbia ammonito o abbia, addirittura(!) emesso un provvedimento di sospensione della patente di guida. Ancora, quanto potrà essere preoccupato un uomo che picchia la figlia perché “veste all’occidentale” da un ordine di allontanamento?
Si potrebbe forse iniziare a pensare di introdurre interventi che incidano anche e soprattutto sulla cultura, sulla educazione, andando oltre il semplice convegno/seminario formativo e, perché no, investendo su approcci di tipo diverso.
Investigando le cause di comportamenti violenti, ad esempio, si eviterebbero sanzioni inutilmente repressive che sicuramente non risolvono alcun problema perché il comportamento violento verrà reiterato in quanto “non curato”.
Ben vengano allora le domande che si pongono avvocati, criminologi e psicologi e soprattutto ben vengano le domande che a questi ultimi vorranno porre – nella loro qualità di Consulenti – Giudici ed avvocati al fine di andare oltre la semplice commissione del fatto, investigandone le cause e cercando di evitare che il reato possa essere reiterato.
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