Eco, Locke e i tuttologi moderni
Umberto Eco, in una sua frase tanto famosa quanto critica e abusata, scatta una fotografia per molti aspetti allarmanti di quella che è la realtà generata da internet in generale e dai social in particolare: aver dato voce a legioni di imbecilli. Gli venne immediatamente contestato che, nell’epoca dell’accesso alle informazioni è difficile lasciare, come in un non remoto passato, il monopolio della scienza e del sapere ad una ristretta cerchia di dotti o presunti tali che, ricordiamolo sempre, erano gli unici ad avere accesso alle fonti di informazione. A questa obiezione è però facile opporre che accedere alle informazioni non vuol dire automaticamente guadagnarsi il titolo di poter parlare di qualsiasi argomento né, tantomeno, avere la presunzione di essere portatori di verità assolute. Oggi, ed è un dato incontestabile, in pochi giorni è possibile per ciascuno poter disporre di un flusso di informazioni che, meno di un secolo fa, potevano essere accumulate solo dopo anni di ricerca e studio. Nulla quaestio che l’accesso alle informazioni e alle loro fonti venga garantito; spaventano i regimi che vorrebbero il contrario. Il problema è poi la loro comprensione, la valutazione, e l’uso che ne viene fatto.
Il punto non è pertanto quello indicato da Eco, della possibilità data ad ogni imbecille di poter esprimere un’opinione, bensì quello che ne è alla base. Internet ha dato a ciascuno la possibilità di formarsi una conoscenza di innumerevoli argomenti andando oltre la cultura di base che potevano fornire quotidiani e pubblicazioni generiche come avveniva fino a trenta anni fa. Il dato dolente è che le informazioni su cui si formano oggi conoscenza e opinioni, possono essere, e spesso lo sono, le affermazioni talvolta assurde dei predetti imbecilli. Il semiologo, saggista e filosofo non avrebbe dovuto quindi parlare di internet come mezzo che consente di poter esprimere un’opinione, bensì avvertire i destinatari (l’umanità intera), che è impossibile potersene formare una corretta, attingendo all’equivalente delle farneticazioni di un ubriaco al bar o di quello che una volta veniva chiamato lo scemo del villaggio (oggi il politically correct imporrebbe sicuramente una denominazione diversa).
Via libera sulla rete quindi non solo ad opinioni di ogni genere senza controllo alcuno, ma anche alle Fake News che, secondo qualcuno, costituiscono addirittura libera manifestazione del pensiero. E ciò nonostante da più parti si auspichi una normativa che ne punisca la diffusione in rete. Il rischio che si corre? Dal palco del concerto dei Pink Floyd a Venezia trasformato nella base luogo di partenza per milioni di immigrati per passare all’Iman che voleva l’adozione in Italia dei numeri arabi per agevolare l’integrazione è la punta dell’iceberg. Notizie spudoratamente false che non pochi, hanno preso per vere, rilanciandole sui social con commenti a dir poco razzisti. Le conseguenze possono essere ancor più devastanti quando si tratti di argomenti che, richiederebbero conoscenze scientifiche o tecniche che non si fermino alla chiacchierata tra amici.
Prima di internet eravamo solo un popolo di commissari tecnici, ma questo creava pochi danni. Adesso, di volta in volta, tutti sono diventati politologi, biologi esperti di vaccini, avvocati, ingegneri e, addirittura, medici laureati alla scuola della vita o alla facoltà della strada, ovviamente ben informati dopo una ricerca su Google e due commenti ricavati su Facebook al termine di una discussone che termina con un “Informati prima di parlare!” che ha sostituito l’ormai obsoleto “Lei non sa chi sono io!”. E non andiamo oltre su teorie quali l’uomo frugivoro pro veganesimo, i no vax e le mamme informate contro Big Pharma e i medici, i terrapiattisti, chi nega lo sbarco sulla Luna e chi no ad una strada o una grande opera perché lo ha letto sul commento del cugino del barista che faceva il muratore nel 1954 e quindi ne sa più di un ingegnere che sa solo leggere libri.
Possiamo quindi ormai affermare, con buona pace di John Locke, che Internet è riuscito a superare l’empirismo che imporrebbe a chiunque, dotato di un minimo di intelletto, prima di assumere una posizione, a considerare su quali argomenti sia in grado di trattare e quali no e, in ogni caso, rifarsi a canoni di esperienza derivanti dall’osservazione e comprensione piuttosto che dall’accettazione acritica dell’opinione più semplice da comprendere tra quelle che girano sulla rete.
Un’ultima nota su Locke, a parte ricordare, e mai come in questi frangenti sembra opportuno, che fu lui a porre i principi della divisione dei poteri dello Stato, che fu anche tra i primi a studiare la pedagogia come strumento di educazione degli uomini del futuro. Forse un ripensamento di questa educazione, diversa da quella dei social, potrebbe essere quanto mai opportuno.
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