Sulla mia pelle (Film, 2018)
Confesso che nutrivo molti dubbi – persino pregiudizi – sulla necessità di un simile film, temevo che Alessio Cremonini avesse girato una cosa molto politica, un lavoro manicheo, una pellicola di denuncia poco cinematografica e parecchio programmatica. Niente di tutto questo. Sulla mia pelle è lontano anni luce dal cinema a progetto, può essere visto anche e soltanto come un ottimo lavoro cinematografico, scritto e sceneggiato senza punti irrisolti, ben fotografato da Matteo Cocco, tra gelidi notturni, spettrali cieli plumbei, inquietanti e claustrofobici interni.
Cremonini mostra grande rispetto per i protagonisti di una vicenda che presenta ancora troppi lati oscuri, ma sarà compito della magistratura chiarire, il suo dovere resta quello di narrare per immagini cercando di non cadere nella retorica. Il regista ci presenta uno Stefano Cucchi – interpretato benissimo da un ottimo Alessandro Borghi – allucinato e dolente, rassegnato al suo destino, incapace di reagire di fronte ai soprusi, al tempo stesso ribelle e angosciato, un personaggio vero, mai monodimensionale, al punto che lo spettatore si affeziona e vive insieme a lui un’ultima drammatica settimana. I carabinieri escono male dal racconto, questo è vero, ma non tutti, soltanto gli autori del pestaggio – che il regista fa solo intuire – mentre altri tutori dell’ordine sembrano sconvolti dall’accaduto e tentano di aiutare il malcapitato. La giustizia italiana ne esce con le ossa rotte, certo, ma inutile negare che situazioni come quelle mostrate da Cremonini purtroppo esistono e vanno estirpate alla radice se vogliamo restare uno Stato di diritto.
Sulla mia pelle ha aperto la sezione Orizzonti della 75° Mostra di Venezia, aggiudicandosi il Premio Pasinetti speciale al film e ai migliori attori. Tutto meritato, perché il racconto non è né parziale né partigiano, il regista mostra immagini nude e crude, racconta con passione ma resta fuori dalla storia e non esprime giudizi. Sulla mia pelle parte dalla fine e ripercorre a ritroso l’ultima settimana di vita di Stefano Cucchi, che muore tra atroci sofferenze, nell’indifferenza generale, incapace di farsi aiutare e di confidare il suo dramma.
Tutti bravi gli interpreti, da Jasmine Trinca – sorella determinata – a Milvia Marigliano – madre angosciata – per finire con un sorprendente Max Tortora, che se la cava bene in una prova drammatica come padre incapace di affrontare il problema di un figlio tossicodipendente. Inutile dire che tutta la storia si regge sulle spalle di un grandissimo Alessandro Borghi, interprete ideale di un personaggio complesso che viene reso con un mix di pietas e di immedesimazione davvero encomiabile.
Se avete Netflix – benemerito distributore che porta il film in tutte le case – non ve lo potete perdere. In programmazione dalla scorsa settimana.
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Regia: Alessio Cremonini. Soggetto e Sceneggiatura: Alessio Cremonini, Lisa Nur Sultan. Fotografia: Matteo Cocco. Montaggio: Chiara Vullo. Scenografia: Roberto De Angelis. Produttori: Luigi Musini, Olivia Musini, Andrea Occhipinti. Casa di Produzione: Cinemaundici, Lucky Red. Distribuzione: Lucky Red, Netflix. Genere: Drammatico. Durata: 100’. Interpreti: Alessandro Borghi (Stefano Cucchi), Max Tortora (Giovanni Cucchi), Jasmine Trinca (Ilaria Cucchi), Milvia Marigliano (Rita Calore), Andrea Lattanzi (Emanuele Mancini), Orlando Cinque (Maresciallo Roberto Mandolini), Mauro Conte (Carabiniere Arresto), Paolo Bovani (Carabiniere in Borghese), Andrea Ottavi (Carabiniere in Borghese).
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[NdR – L’autore dell’articolo ha un suo blog “La Cineteca di Caino”]
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Concordo. Ottimo film. E, ovviamente, eccellente la tua recensione, Gordiano. Aggiungo, che la sceneggiatura coglie molto bene quelli che in sociologhese si chiamano processi di spersonalizzazione. Mi spiego: per le istituzioni, Cucchi è una “pratica” un numero, un “caso” di devianza, e come tale viene trattato. Cucchi, da parte sua, “si incolla” alla sua identità di deviante, l’unica che possiede: è una reazione tipica, di autodifesa. Così però anche Cucchi, in qualche modo assume un comportamento prevedibile, per le istituzioni, dunque spersonalizzante. L’interazione non è più tra persone, ma per capirsi, tra due istituzioni.. Ovviamente, quel che non torna, dal punto di vista penale, è il pestaggio. Sul qual si dovrà fare chiarezza. Ci mancherebbe altro.