Istanbul, giornalista scompare nel Consolato saudita

Ci sono giornalisti che fanno inchieste scomode, non si allineano e toccano verità inconfessabili. Ci sono giornalisti che muoiono o scompaiono nel nulla, andando a loro volta a riempire gli spazi di cronaca nera e giudiziaria.

Reporters sans Frontières riferisce dell’uccisione di 65 colleghi nell’esercizio del loro lavoro solo nel 2017. Senza seguire un ordine cronologico, ricordiamo la morte della giornalista anti-corruzione Daphne Caruana Galizia nell’esplosione della sua auto, imbottita di semtex, a Malta; il recentissimo omicidio di Victoria Marinova, tenace cronista bulgara che indagava su tangenti e scandali relativi a esponenti della politica nazionale; l’eliminazione di Anna Politkovskaja, giornalista russa, oppositrice di Putin, nota per i suoi articoli di denuncia sulla violazione dei diritti civili legati alla questione cecena, bersaglio – secondo molti – di un killer a contratto che le ha sparato nell’ascensore del suo palazzo, a Mosca; l’uccisione di Jan Kuciak, reporter impegnato in un’inchiesta sugli affari della ‘ndrangheta calabrese in Slovacchia, che ha provocato le dimissioni di alcune figure di spicco dell’entourage del premier; infine, tornando indietro al 1994, il duplice assassinio della nostra Ilaria Alpi e del suo cameraman Miran Hrovatin, impegnati in Somalia nella sfortunata indagine su un traffico internazionale di armi e di rifiuti tossici.

Cronisti “sgraditi”, che vengono uccisi o imprigionati – per lo più – in aree dove la democrazia stenta a farsi largo, l’informazione è sistematicamente filtrata dalla censura di regime e la repressione, unitamente al bavaglio, rientra negli strumenti di governo più gettonati.

I riflettori sono, oggi, puntati sul caso di Jamal Khashoggi, giornalista saudita 59enne, collaboratore del Washington Post, considerato dissidente pericoloso dal principe ereditario saudita Mohammad bin Salman. All’indomani della presa del potere del principe, Khashoggi aveva lasciato la patria e si era ritirato in esilio volontario negli Stati Uniti. Si trovava, nei giorni scorsi, in Turchia, per consegnare al consolato saudita di Istanbul documenti relativi al divorzio con la prima moglie. Preoccupato che la nuova leadership potesse volerlo catturare o uccidere, avrebbe lasciato – prima di entrare nell’edificio del consolato – il proprio cellulare in custodia alla  compagna, Hatice Cengiz, con l’istruzione di chiamare un politico turco del partito di Erdogan, in caso di complicazioni.

Dopo quattro ore di vana attesa, la donna decide di chiamare la polizia. Dell’uomo, nessuna traccia. Il mistero s’infittisce e assume contorni da intrigo internazionale, in virtù delle dichiarazioni di fonti investigative turche, riportate dal New York Times e dallo stesso Washington Post, riguardo all’arrivo all’aeroporto di Istanbul, nello stesso giorno della sparizione di Khashoggi, di alcuni passeggeri, indicati come possibili agenti dei servizi segreti di Riad. Secondo le ultime notizie diffuse dai media locali, grazie alle immagini della videosorveglianza, sarebbero stati ricostruiti i movimenti di 9 cittadini sauditi, atterrati – con volo privato notturno – all’Ataturk Airport, alle ore 3:28 di martedì scorso. Prelevati da alcune vetture e trasferiti presso un hotel vicino al consolato “incriminato”, avrebbero trascorso circa quattro ore nelle loro camere, per poi raggiungere – divisi in due gruppi – gli uffici della legazione, tra le 9:40 e le 9:55 del mattino. Il presunto commando, colpito sul posto il giornalista, giunto alle 13:14 per ritirare il nulla osta richiesto per sposare la nuova compagna turca, ne avrebbe smembrato il cadavere con una motosega e fatto uscire i resti a bordo di un’auto. I filmati della polizia turca, incaricata del monitoraggio del perimetro del consolato, sembrano suffragare la suddetta tesi: alle 15:08, un van nero Mercedes Vito con targa diplomatica si allontana dall’edificio, per raggiungere, a poco più di un chilometro di strada, la residenza privata del console saudita. Il van entra nel garage dell’abitazione, sottraendosi al controllo delle telecamere sulla via e occultando eventuali operazioni di scarico. Alle 17:33, la fidanzata del reporter è ripresa all’esterno del consolato, mentre attende l’uscita dell’uomo. In serata, i 9 arabi lasciano l’hotel e tornano alla base con un altro aereo privato, completando quello che si sospetta essere stato un raid in piena regola.

Le autorità saudite smentiscono seccamente la fondatezza di ogni accusa. Khashoggi avrebbe lasciato il consolato con le proprie gambe, nonostante le videoregistrazioni dell’esterno ne mostrino l’ingresso, ma non l’uscita. In Arabia, i parenti del giornalista confermano la versione di Riad e dichiarano di non aver mai saputo dell’esistenza di una sua fidanzata turca. Di converso, l’intelligence USA – sulla scorta di comunicazioni intercettate tra 007 sauditi, relative a un piano di sequestro a danno del cronista – avalla l’ipotesi di omicidio avanzata dai turchi. Sia il presidente Donald Trump che il segretario di Stato Mike Pompeo hanno chiesto al Paese arabo trasparenza e collaborazione nello svolgimento delle indagini.

Sullo sfondo della vicenda, si stagliano le recenti tensioni politiche tra Ankara e Riad, schierate su fronti avversi nelle varie crisi che devastano il Medio Oriente, come quella che vede il Qatar sotto embargo da parte dell’Arabia Saudita, ma sostenuto con vigore dalla Turchia. In attesa di sviluppi investigativi decisivi, l’eventuale omicidio di Khashoggi – sebbene, per il diritto, tecnicamente compiuto su territorio saudita – potrebbe essere interpretato come una violazione della sovranità turca, che compromette ulteriormente i rapporti diplomatici intercorrenti fra i due Paesi.

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