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WHATSAPP E SCREENSHOT COSTITUISCONO PROVE IN TRIBUNALE – Ai nuovi strumenti di comunicazione e alle tecnologie che si evolvono, i Tribunali devono dare adeguate risposte. Possono trovare ingresso in una causa i messaggi di WhatsApp e i sempre meno utilizzati SMS e MMS? La risposta è sempre più in senso affermativo, al punto che il Tribunale di Catania ha ritenuto valido, con un’ordinanza del 2017, un licenziamento intimato via WhatsApp ad un dipendente, in quanto si trattava comunque di un mezzo per comunicare in maniera chiara quale fosse la volontà del datore di lavoro. Nel caso, inoltre, il lavoratore, esibendo il messaggio in causa, aveva riconosciuto la provenienza della comunicazione.

Sulla stessa linea il Tribunale di Milano che ha ritenuto sussistere giusta causa di licenziamento nei confronti di un dipendente che, attraverso la creazione, condivisa con i colleghi di lavoro, di un gruppo WhatsApp intitolato al proprio superiore gerarchico ha intenzionalmente posto in essere una condotta volta a denigrare il proprio responsabile di lavoro, da lui apostrofato con epiteti palesemente e pacificamente offensivi e denigratori, sicuramente idonei a sminuirne la credibilità e autorevolezza, trattandosi fra l’altro di un gruppo WhatsApp in cui sono esclusivamente presenti dipendenti della resistente e creato in parallelo a quello utilizzato dal datore per comunicare i turni e gli ordini di lavoro“.
In una più recente sentenza emessa dalla quinta sezione della Corte di Cassazione, è stato stabilito un importante principio, secondo il quale le comunicazioni inviate su supporto mobile e conservati nella memoria dell’apparecchio, hanno natura di documenti e non di corrispondenza e, come tali, non sono soggetti alla peculiare disciplina in materia di intercettazioni.

Il punto è se dette conversazioni possano essere prodotte dalla parte ovvero acquisite dal Giudice mediante un procedimento che ne garantisca l’attendibilità e la non manipolazione. In tal senso la Corte di Cassazione si è espressa sempre nel 2017 dichiarando non acquisibili le trascrizioni di una conversazione WhatsApp prodotta da un imputato di stalking ai fini della valutazione dell’attendibilità della persona offesa. In tale ipotesi è stato rilevato come, ai fini dell’acquisizione, sia necessario disporre del terminale per estrapolare le conversazioni in un legittimo contraddittorio.

In ogni caso il principio che viene ribadito è quello della possibilità per le conversazioni sui social di trovare ingresso in un giudizio penale o civile. Come dire: “state attenti, perché tutto ciò che scrivete o registrate potrà essere usato contro di voi.”

Ed è ciò che è accaduto ad una signora che il Tribunale di Ravenna ha condannato a restituire del denaro ricevuto in prestito dall’ex amante. In quest’ultimo caso il Tribunale, oltre a prendere atto delle dichiarazioni contenute nei messaggi, ha ritenuto che le stesse configurassero riconoscimento di debito.

Ciò apre la strada, in caso di molestie o messaggi che contengano insulti, alla possibilità non solo di farli estrapolare, ma anche di esibire la schermata del display a carabinieri o agenti di pubblica sicurezza affinché possano certificarne l’autenticità in sede di presentazione di una querela. Sicuramente appare insufficiente, laddove se ne volesse fare uso in giudizio, le semplici trascrizioni in formato word di conversazioni e messaggistica. In tal senso si è espresso il Tribunale di Milano.

Senza entrare in tecnicismi ricordiamo che l’art. 2712 del Codice Civile prevede che le riproduzioni meccaniche, fotografiche, informatiche (CAD) o cinematografiche, le registrazioni fonografiche e, in genere, ogni altra rappresentazione meccanica di fatti e di cose formano piena prova dei fatti e delle cose rappresentate, se colui contro il quale sono prodotte non ne disconosce la conformità ai fatti o alle cose medesime. Inoltre l’art. 2719 c.c. dispone inoltre che le copie fotografiche di scritture hanno la stessa efficacia delle autentiche, se la loro conformità con l’originale è attestata da pubblico ufficiale competente ovvero non è espressamente disconosciuta. Ma in una ulteriore pronuncia del gennaio 2018, la Cassazione sembra essersi spinta oltre e, nella parte motiva di una sentenza, ha precisato che i dati di carattere informatico contenuti in un computer, in quanto rappresentativi di cose, rientrano tra le prove documentali e la loro estrazione è operazione meramente meccanica, tale da non necessitare particolari garanzie. Tutto ciò apre la porta anche agli screenshot delle conversazioni sui social. Sarà poi compito del giudice valutarli correttamente e della controparte contestarne autenticità e provenienza.

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