Prescrizione, garanzia di civiltà e democrazia
Dei delitti e delle pene è il testo che indica i caposaldi del moderno diritto superando quello della peggiore inquisizione; è il trattato che pone le linee guida della Giustizia da applicare in una società democratica, non oppressa da oscurantismi, prevaricazioni, violazione dei diritti e quant’altro appartenga a regimi dittatoriali o teocratici che negano le libertà umane. I principi enunciati da Cesare Beccaria vennero applicati in Russia, fornirono ispirazione ai padri costituenti americani, hanno portato all’abolizione della pena di morte e della tortura. Perfino Voltaire, personaggio pieno di Virtù, tranne quella della modestia, non riuscì a non ammirarlo. Se l’Italia è considerata la culla del diritto, il merito – oltre ai grandi giureconsulti – va anche all’autore di quest’opera spesso citata senza averne cognizione.
La prescrizione dei delitti è argomento centrale del lavoro di Beccaria (o forse di Pietro Verri). Per alcuni delitti non deve trovare applicazione (e qualcuno “dimentica” che per strage ed omicidio è già così), o essere modulata sulla gravità del reato: è principio di civiltà cui non è possibile venir meno.
Beccaria ne parla sostenendo come sia una figura indispensabile ai fini dell’amministrazione della giustizia: Qual più crudele contrasto che l’indolenza di un giudice e le angosce d’un reo? I comodi e i piaceri di un insensibile magistrato da una parte e dall’altra le lagrime, lo squallore d’un prigioniero? Processo celere e certezza della pena anche in termini di immediatezza della stessa dopo la commissione di un reato.
È un argomento di cui solo gli addetti ai lavori possono avere piena cognizione, ma oggi tutti sono diventati esperti di un istituto giuridico che è, per sua stessa natura, uno dei più complessi e sensibili e già oggetto di riforme talvolta non ottimali. E vogliono dire la loro. Liberissimi. Ma volerla sospendere dopo la sentenza di primo grado è, legalmente e umanamente, un abominio.
La prescrizione, sbandierata oggi come garanzia di certezza della pena (e solo per alcune categorie di delinquenti), esiste anche in materia civile: è l’istituto giuridico in base al quale, per il decorrere di un termine, viene meno la possibilità di esercitare un diritto; permette di non essere soggetti a vita a possibili rivendicazioni altrui o, nell’ipotesi opposta, acquisire diritti rispetto a chi si disinteressa dei propri, come nel caso dell’usucapione (non a caso detta “Prescrizione acquisitiva”). Nel diritto penale è causa di estinzione del reato per il decorso di un lasso di tempo dalla sua commissione, tale da giustificare il venir meno dell’interesse dello Stato alla punizione. E’ del resto bandiera di molti movimenti liberal e democratici evitare di incarcerare un uomo a distanza di anni dal reato commesso perché “si punisce un’altra persona.”
Un individuo non può restare soggetto vita natural durante ad un processo. Lo dice la Costituzione che parla di ragionevole durata del processo; lo dice la Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea: “Ogni persona ha diritto a che la sua causa sia esaminata equamente, pubblicamente ed entro un termine ragionevole…”. Lo dicono il buon senso e la logica, anche in base alla considerazione che il processo è già pena, specialmente quando viene accompagnato da gogne mediatiche e movimenti di piazza.
Bloccare o sospendere la prescrizione è non solo incostituzionale, ma anche contrario a principi internazionali e rappresenta una grave violazione dei più basilari diritti umani. Si sostanzierebbe in un ergastolo a vita rappresentato da un processo senza fine. Ed in tal senso si muove la aberrante proposta avanzata recentemente in Italia che, in barba alla presunzione di innocenza, vuole rendere potenzialmente perenni gli effetti di una condanna di primo grado. In tutto ciò dimenticando anche i diritti delle parti lese che, in tal modo, vedrebbero bloccate le possibilità di avanzare rivendicazioni.
Autori e fautori di una simile proposta sono digiuni delle più elementari nozioni di diritto, giungendo a sostenere che questa “innovazione” serva a mettere in carcere gli autori di alcuni reati o che vada nella direzione di una certezza della pena; dimostrano di avere anche scarsa conoscenza di cosa realmente avviene in un’aula di giustizia o più opportunamente farne un uso strumentale e politico tipico dello stato di polizia. Allo stesso modo è puerile puntare il dito contro avvocati azzeccagarbugli che ricorrono a cavilli per difendere posizioni indifendibili dimenticando che la quasi totalità delle prescrizioni matura già in fase di indagini preliminari (terreno dove il pubblico ministero è padre padrone). Non a caso tra i fautori della proposta si trovano i magistrati, lamentando eccessi di appelli e ricorsi (ma senza fare riferimento ai loro possibili errori), mentre sono contrari proprio gli avvocati che parlano di diritti dei cittadini e degli imputati.
Una riforma della Giustizia non può passare attraverso provvedimenti demagogici ma deve muovere da investimenti in strutture e interventi sulla base culturale politica iniziando a valutare l’opportunità di mantenere l’obbligatorietà dell’azione penale. Un’ultima osservazione che vorrebbe far riflettere i giustizialisti: ogni sentenza di assoluzione è un errore giudiziario. Senza voler sempre richiamare il caso Tortora, siano specialmente i magistrati a riconsiderare il loro ruolo.
Vogliamo dire che la Giustizia è una macchina? Bene. Quella Italiana deve essere riparata al meglio o più probabilmente ne occorre una nuova. Ma non è una soluzione fermare a metà il viaggio del cittadino – passeggero (imputato o parte offesa), perché il proprietario – Stato non vuole investire neppure i denari per la riparazione (figuriamoci ricomprarla) e i guidatori – magistrati reputano sufficiente una parte della tratta. Il tutto con meccanici – politici, che sono felici proprio di lasciare qualcuno a metà strada per assecondare gli umori del momento.
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