Le donne e la partita di pallone
Mercoledì scorso è stata disputata la partita di Super Coppa Italiana tra Juventus e Milan. Un evento di grande impatto mediatico per lo sport e non solo. Già dai primi di gennaio si è infatti dato il via ad una serie di polemiche verso la Lega Calcio di Serie A, accusata di aver scelto per sede della partita Gedda (punto di transito per i pellegrinaggi verso le Città Sante di La Mecca e Medina) a soli fini economici. L’Arabia Saudita pare infatti abbia messo sul tavolo una discreta quantità di denaro per ospitare la partita oltre una ulteriore cospicua somma per i diritti di altre due edizioni dell’evento.
Da un punto di vista esclusivamente commerciale, la scelta non è certamente sbagliata. Peraltro, dopo ben sette mesi dall’annuncio, il mondo della politica si è mosso incredibilmente all’unisono, comunque low profile, contro la decisione della Lega, sollevando un coro di proteste causate dall’impossibilità per le donne di accedere da sole allo stadio. Questo specifico divieto è però solo la punta dell’iceberg di tutti i divieti nei confronti delle donne in vigore nel mondo islamico.
Il presidente della Lega Calcio Gaetano Micciché ha diramato un comunicato con cui ribalta la situazione, attribuendo anzi alla Super Coppa in Arabia Saudita il merito di aver consentito alle donne il libero accesso ad alcuni (ed è già un passo avanti) settori dello stadio, senza accompagnatore: “la nostra Supercoppa sarà ricordata dalla storia come la prima competizione ufficiale internazionale a cui le donne saudite potranno assistere dal vivo”.
Indubbiamente, la nota di Micciché, dal sapore fortemente politico del resto come il suo ruolo impone, tenta di aprire uno squarcio su un Paese in cui la tutela dei diritti umani, secondo anche un recente rapporto di Amnesty International, non è sicuramente esemplare. Un Paese in cui il dissenso non è consentito e la libertà di espressione non si sa cosa sia. In Arabia Saudita qualsiasi raduno pubblico, comprese manifestazioni pacifiche, è vietato ai sensi di un’ordinanza del 2011 del ministero dell’Interno. Ancora Amnesty International riferisce di torture e maltrattamenti. Viene applicata la pena di morte spesso comminata al termine di processi iniqui con confessioni estorte tramite violenze e torture.
L’Arabia Saudita è il Paese da cui è fuggito nel 2017 il giornalista saudita Jamal Kashoggi, spesso critico nei confronti del Re, Salman bin Abdul Aziz Al Saud e che è stato ucciso nel consolato saudita in Turchia. Di questo assassinio sono stati formalmente accusati 11 sauditi, alcuni molto vicini al Re, a sua volta fortemente sospettato tanto in Turchia quanto negli USA di esserne il mandante.
È in questo panorama che si inserisce il tentativo di Micciché di far passare l’evento sportivo come il primo passo verso il riconoscimento dei diritti delle donne. Ferma restando la perplessità sul ritardo con cui si è alzato il coro della protesta, non si può non essere d’accordo con chi ritiene offensiva e, probabilmente pericolosa, questa scelta.
“Il calcio non fa politica, ma ha un ruolo sociale, in questo caso di veicolo di unione e comunanza tra popoli che non ha uguali in nessun altro settore”. Questa affermazione di Micciché, nella nota ufficiale del 3 gennaio, sembra una pezza peggiore del danno a cui neppure si tenta di porre rimedio. Il Presidente della Lega si dichiara ottimista, di guardare con fiducia al futuro e ai passi già fatti. Certo, il re Salman ha chiesto ed ottenuto che le donne potessero finalmente guidare l’auto e senza un familiare uomo al fianco ma si tratta, purtroppo, di una goccia nell’oceano.
In un periodo storico in cui le donne sono considerate peggio che niente, in cui si assiste al brutale pestaggio di una ragazza in Sardegna senza che nessuno alzi un dito in sua difesa, quando si resta insensibili al pianto di bambini resi orfani dal proprio padre, quando ci si chiede cosa stia accadendo agli uomini, per quale motivo pensino di avere il potere di vita e di morte sulle donne che dicono di amare, una partita di calcio in un Paese in cui queste domande non vengono poste ed in cui chi mai lo facesse verrebbe aspramente punito sembra porre la pietra tombale sui diritti umani.
Paradosso. Tutto ciò accade nel momento in cui il calcio femminile, finalmente anche in Italia, sta diventando uno sport importante con numeri in grande ascesa. Questo si sta realizzando solo perché la Figc ha imposto alle squadre professionistiche (e non) di avere un settore femminile. È così che i maggiori club italiani, seguiti presto da tutte (o quasi) le squadre professionistiche, hanno investito nel calcio rosa dando vita ad entusiasmanti campionati i cui diritti televisivi sono già stati acquistati da Sky. La visibilità immediata ha creato una cassa di risonanza tale che anche gli sponsor hanno compreso la bellezza e le potenzialità di questo sport. Resta, però, l’amara considerazione sullo sport femminile: nella moderna ed occidentale Italia, nessuno sport femminile è professionistico, con la ovvia conseguenza di ricadute in termini economici e di diritti di cui le donne si vedono private, non potendo fare del loro sport la “professione” della loro vita.
Questa riflessione evidenzia la contraddizione di quanto voluto dalla Figc: poche domeniche fa si era consentito a giocatori e giocatrici di scendere in campo con il viso segnato da una striscia rossa quale simbolo contro la violenza sulle donne; adesso, per un motivo puramente economico si consente la disputa di un importante evento in un Paese che le priva di fondamentali libertà.
Micciché ha preferito guardare al calcio come parte del sistema culturale ed economico italiano, sottolineando come i rapporti commerciali tra l’Arabia Saudita e l’Italia siano ottimi grazie anche all’export ed al grande numero di italiani che lavorano in Arabia Saudita. Il calcio, conclude Micciché, “è un fondamentale supporto alla promozione del made in Italy e dei suoi valori”.
Le donne ed i diritti umani, a quanto pare, contano meno del mercato.
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