Trump sotto attacco
Con una sorta di morbosa attrazione, ho seguito su CNN, la lunga deposizione di Michael Cohen, ex-avvocato di Donald Trump, a una Commissione del Congresso americano. Il Congresso è ora a maggioranza democratica, la Commissione riflette questo fatto nella sua composizione ed è presieduta da un deputato democratico afroamericano, Cumming.
Nella dichiarazione iniziale, Cohen, che è stato uno dei legali di Trump per più di dieci anni, ha detto cose di una inaudita durezza contro il Presidente, che ha definito “razzista, truffatore e imbroglione” e un assoluto bugiardo, che non ha mai capito e rispettato il limite tra verità e invenzione. Ha dato vari dettagli per giustificare queste affermazioni, riconoscendo di aver per anni eseguito gli ordini di Trump di compiere azioni illegali o immorali, come pagar denaro per far tacere testimoni scomodi, per lo più pornostar o fanciulle di facili costumi (suona familiare, per chi ricorda gli usi berlusconiani) e nascondere le iniziative di affari avviate da Trump con la Russia.
Facendo fronte alle raffiche di domande aggressive dei membri repubblicani, Cohen si è mantenuto fermo e credibile. La cosa grave è che nessun repubblicano ha mostrato di interessarsi della gravità di quanto emerso: tutti, senza eccezione, si sono limitati a cercare di distruggere la credibilità del testimone. Cosa, in apparenza, facile: Cohen è stato oggetto di una condanna per false dichiarazioni al Congresso e all’FBI (fatte peraltro in difesa di Trump) e per evasione fiscale (un reato grave negli Stati Uniti). La strategia è apparsa elementare: di fronte alla contingenza dei fatti, screditare il testimone e sostenere un complotto politico. Ma questa linea (anche questa di sapore berlusconiano), non mi pare sia passata molto bene. Nelle dichiarazioni di apertura e di chiusura, Cohen è apparso convincente quando ha ammesso tutti i propri errori e anche i propri crimini, e ha detto di essersi deciso a parlare perché Congresso e Paese sapessero chi è Trump. E ha parlato di minacce ricevute per sé e per la sua famiglia, per la quale ha chiesto protezione. Particolarmente stantia mi è parsa la linea di un congressista repubblicano della Florida che ha detto sprezzantemente che ci sono cose più serie di cui occuparsi (l’economia, le minacce al Paese che giustificherebbero il muro con il Messico e così via) che quella “sciarada di accuse irrilevanti”. Facile gioco hanno avuto i contendenti democratici nel rilevare che non c’è niente di più serio e importante che stabilire la moralità di chi governa.
La testimonianza di Cohen, pubblica e durata 7 ore, continuava poi a porte chiuse, probabilmente per mettere in luce quegli aspetti e dettagli destinati al segreto. Tra cui probabilmente molti nomi di persone coinvolte nelle azioni di Trump. Dopo la seduta, il Presidente Cumming ha detto ai giornalisti di considerare le dichiarazioni di Cohen complessivamente credibili e ha ricordato che quella che è in gioco è l’integrità della democrazia americana e con essa il futuro del Paese.
È difficile quantificare il danno che questa testimonianza, ritrasmessa dalle principali reti nazionali in tutto il Paese, abbia apportato al Presidente. Certo avrà confermato l’avversione di una parte forse oggi maggioritaria dell’opinione pubblica ma, come succede spesso,, non scalfirà lo zoccolo duro (il 30%) di quella destra populista, nazionalista, fondamentalmente razzista, che appoggia Trump e l’appoggerà fino in fondo. Difficile anche dire che effetto avrà sul Presidente il fallito accordo con Kim-Jong Un. Probabilmente neutro, mentre se il Presidente fosse apparso ingenuo o cedevole di fronte all’interlocutore nordcoreano, ne avrebbe subito un certo danno.
L’attacco a Trump attraverso il suo ex-avvocato non è un caso isolato. Notizie e commenti demolitori si susseguono giornalmente sulla grande stampa e in CNN. Potenzialmente grave è in particolare la notizia, non confermata, che la Procura Generale di New York avrebbe aperto un’indagine relativa alle attività finanziarie di Trump (va ricordato che egli si è sempre rifiutato di rendere pubbliche le sue dichiarazioni d’imposta). E si attende di giorno in giorno la conclusione dell’indagine dello “Special Prosecutor” Robert Mueller sul Russiagate, sulla quale mancano finora anticipazioni credibili. Ci si aspetta che il rapporto finale conterrà aspetti molto delicati per l’entourage di Trump , compresi membri della sua famiglia. Non è però certo che giunga alla conclusione di una diretta partecipazione del Presidente ai contatti con emissari di Putin durante la campagna elettorale (o anche che ne fosse al corrente, benché pensare il contrario è molto ingenuo). Il rapporto confermerà certamente quello che è già più che noto e che corrisponde a conclusioni unanimi di tutte le agenzie di intelligence USA: i russi hanno condotto una intensa campagna di hacking per influenzare le elezioni presidenziali americane a favore di Trump. Difficile però che Mueller possa dire se e in che misura questa interferenza russa abbia realmente influito sul voto. È anche incerto se il Ministro della Giustizia deciderà di rendere pubblico il rapporto stesso ma è certo che si prospetta a breve scadenza una nuova battaglia politico-legale degna dei tempi del Watergate.
Nel frattempo, Il carattere del Presidente, la sua amoralità, il suo disdegno per la verità, i suoi vendicativi rancori, risultano chiari dagli ultimi libri usciti sulla Casa Bianca in questi mesi: il più documentato e corrosivo di tutti è il libro di Michael Wolff, “Fire and Fury” (Fuoco e Furia), che sta avendo grande successo. Pochi libri, però, hanno mai realmente cambiato l’opinione. Chi li legge è già convinto delle loro tesi e chi non ci crede non li legge. Solo una parte minima di cervelli indipendenti e ragionanti se ne lascerà influenzare.
Ma è certo che nelle prossime settimane e mesi, quanto più si avvicinano le elezioni presidenziali, Trump sarà il bersaglio di attacchi da un establishment democratico deciso a sbarrargli la strada per la rielezione e che oggi controlla la Camera dei Rappresentanti.
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