Gli errori dell’Europa e la lettera di Macron
Leggo sempre con interesse e ammirazione quello che dice e scrive Sergio Romano, uno dei cervelli più lucidi che ci siano in Italia. Perciò ho letto con speciale attenzione una recente intervista nella quale sostiene che il maggior errore dell’Europa fu di accogliere nella sue istituzioni i Paesi dell’Est. In verità, penso che altrettanto e forse più grave, fu accogliere a suo tempo la Gran Bretagna (non per nulla De Gaulle vi si oppose fino all’ultimo).
Sergio Romano ha tutte le ragioni. I Paesi dell’Est si sono rivelati sulla distanza un rischio, tradendo quasi del tutto quello spirito che dovrebbe essere al cuore dell’integrazione europea. Molti di essi si sono messi in mano a governi di destra, nazionalisti e sovranisti, se non euroscettici. E Romano ha ragione quando dice che furono Germania e Gran Bretagna a spingere per l’apertura all’Est. La Germania cercava di ampliare la zona di sicurezza e benessere alle sue frontiere orientali, la Gran Bretagna puntava, come sempre, a diluire, ad annacquare, il nucleo integrazionista originale. Può dirsi che c’è riuscita, anche se non abbastanza per lei, visto che poi ha scelto la strada dell’uscita. In sintesi, potrebbe dirsi che negli anni Novanta l’Europa scelse la strada dell’espansione invece di quella dell’approfondimento, e ne sta pagando le conseguenze.
Credo però che si debba andare più a fondo nell’analisi. Intanto, se errore ci fu, ne portiamo la responsabilità un po’ tutti, in primo luogo la Francia e l’Italia, che non si opposero (come potevano opporsi, per esempio, all’entrata della Polonia?). Non si può inoltre non comprendere l’errore fuori del contesto politico-strategico di quegli anni. I Paesi dell’Est uscivano dal lungo inverno sovietico, cercavano ansiosamente un approdo europeo (e atlantico). NATO e USA aprivano loro le braccia (con significative ma vane resistenze inglesi, francesi e italiane). Ma poteva l’Europa rifiutarsi di accogliere nel proprio seno materno popoli che da sempre erano parte integrante della civiltà e della storia d’Europa? E poi, è così certo che fu l’allargamento a impedire l’approfondimento? A prima vista, forse. Ma, avendo vissuto quegli anni nel cuore delle istituzioni europee, non lo credo affatto. Certo, procedere a dodici pareva a prima vista più cartesianamente facile che a ventotto, ma tra i dodici giocava la tenace resistenza inglese, di per sé frenante, e che in realtà serviva di comodo alibi a quegli altri che, sotto sotto, a Parigi, ma temo anche a Berlino, non volevano in realtà un cammino federale. Ci dimentichiamo che la Costituzione europea era stata bocciata dai francesi? E sono altresì convinto che se, negli anni Novanta, si fosse davvero voluto e potuto andare avanti verso un legame federativo, non sarebbero stati i nuovi membri a opporsi.
Quello che accadde in realtà è che, di fronte alla estrema difficoltà di approfondire i legami comunitari, apparve comoda, tentante e, alla fine, quasi inevitabile, l’alternativa dell’allargamento. Non da disprezzare, peraltro, se portava l’Unione a una popolazione di oltre 400 milioni di abitanti e creava un’area economica di prima grandezza. Senza dimenticare che pochi, o nessuno, poteva prevedere in quegli anni l’ondata nazionalista che, venti anni più tardi, avrebbe percorso l’Europa.
Guardiamo ad oggi: possiamo veramente affermare in coscienza che l’Europa è in difficoltà (grave) principalmente a causa dei Paesi di Visegrad? Certo, essi non aiutano, ma a me pare che le vere difficoltà risiedono altrove: in Gran Bretagna, ovvio, ma anche nei forti movimenti nazionalisti in Francia e Germania. Per non parlare, per carità di patria, dell’Italia, dove quei movimenti sono già al potere.
In conclusione, ragionare sugli errori dell’Europa (non c’è solo l’allargamento ad Est) è un esercizio intellettualmente sano per un giudizio storico, ma poco utile nella realtà odierna. Penso che l’esigenza centrale sia ora piuttosto quella di prendere atto della realtà e vedere come, se possibile, superarla. L’accordo franco-tedesco di Aquisgrana parrebbe un utile passo avanti, visto che non c’è Europa senza l’asse Parigi-Berlino, ma potrebbe anche essere la manifestazione di un piano di procedere a due (il nucleo, non duro, ma durissimo), come possibile alternativa in caso di crisi irreparabile dell’Unione.
Ho scritto tutto questo con animo, non rassegnato, ma triste. Guardandomi in giro, vedevo un generale appiattimento, una rassegnazione al peggio, una rinuncia agli ideali. E poi è venuta la lettera aperta del Presidente francese Macron ai popoli europei, una lettera di tono altissimo e di contenuto meraviglioso, uno straordinario appello a riprendere il cammino in avanti, con una convincente indicazione delle ragioni vitali per farlo, in una fase in cui i popoli europei sono soggetti a una subdola aggressione delle maggiori potenze (Macron non sembra fare distinzioni tra Russia, Cina e USA) che vorrebbero ridurci al rango di oggetto, non soggetto, della Storia.
E questo orgoglioso e appassionato appello al cuore e alla ragione europea non resta astratta, ma è accompagnata dall’indicazione puntuale delle cose da fare. E non sono cose astratte, non è una utopica visione di salti in avanti istituzionali, ma misure concrete e realizzabili. Il messaggio non ignora neanche i ritardi, le carenze, gli errori dell’Unione e indica con innovativa intelligenza anche la strada per superarli, attraverso una Conferenza europea aperta, che possa ascoltare la voce di vaste categorie di istituzioni e di persone.
La prospettiva aperta da Macron è esaltante. Io spero, di tutto cuore, che sia ascoltata e dibattuta ampiamente e seriamente. Spero che la meschinità delle beghe politiche quotidiane non soffochi una voce così alta, venuta in un momento così importante. Tra l’altro, anche perché contiene idee che dovrebbero piacere ai nostri governanti, o almeno ad una parte di essi, come la protezione esterna delle frontiere e una politica di difesa dei valori comuni anche attraverso una linea comune e solidale in materia di immigrazione, nonché una politica di sviluppo dell’Africa. È troppo illudersi che i gallofobi nostrani sappiano elevarsi a quel giusto livello?
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