Brexit, caos totale
L’ultimo, disperato tentativo di Theresa May di far passare il suo accordo con l’UE – per il quale aveva gettato sulla bilancia il peso delle sue annunciate dimissioni in cambio dell’approvazione – è dunque fallito. Eppure, la May aveva anche usato una manovra spericolata: a differenza delle due volte precedenti, aveva sottomesso all’approvazione del Parlamento solo l’accordo formale, non la Dichiarazione Politica che vi si accompagna in modo necessario. L’accordo riguarda il pagamento di quanto la Gran Bretagna deve all’UE, lo status dei cittadini europei in UK e inglesi in Europa, gli accomodamenti per il periodo di transizione dopo l’uscita, e altri temi puntuali. La Dichiarazione Politica riguarda i rapporti post-brexit tra UK e UE, con la discussa clausola del “backstop”diretta a evitare una frontiera chiusa tra Irlanda del Sud e Irlanda del Nord. La May poteva sperare che, rinviato questo tema a successivi negoziati, in vista dei quali la Dichiarazione avrebbe comunque tornare al Parlamento, l’ostilità sarebbe rientrata. Ma ciò non è bastato agli estremisti pro-brexit. Né è servita l’autoimmolazione di Theresa May: non che gli estremisti non vogliano la sua caduta, ma perché pensano che essa sia, presto o tardi, comunque inevitabile. Né certo preoccupa loro l’ipotesi di uscita senza accordo, visto che quello che vogliono è una completa rottura con l’Europa.
In queste condizioni, nessuno è in grado di prevedere cosà accadrà. Formalmente, la situazione è questa: il Consiglio Europeo aveva stabilito che, in caso di mancata approvazione dell’accordo, la data dell’uscita sarebbe stata fissata al 12 aprile. Si dovrebbe dunque concludere che a quella data consumi l’uscita senza accordo, restando da negoziare il tema dei futuri rapporti. Su questo tema, il Parlamento britannico ha votato su otto proposte differenti, ma tutte sono state bocciate. Si pensa che i Comuni riprenderanno a votare su altre ipotesi lunedì prossimo, ma come trovare un accordo su una proposta realistica? Parlando ai Comuni dopo la sconfitta, la May ha definito grave la situazione, rimproverando al Parlamento di non essere stato capace di trovare un’intesa su nulla, se non una serie di No, peraltro in contraddizione tra di loro (come bocciare l’accordo ma bocciare anche un’uscita senza accordo). Il Parlamento, ha detto esasperata, ha raggiunto i limiti. La frase è stata ritenuta una, non troppo velata, allusione alla possibilità di nuove elezioni, come via d’uscita da una situazione inestricabile.
È diffusa a Londra l’idea che la May sottoporrà l’accordo nella prossima settimana a un quarto voto, minacciando, in caso di non approvazione, la convocazione di elezioni generali. Un ricatto disperato ma forte, se si considera l’ostinata volontà dei conservatori di evitare il ricorso diretto al popolo. Nuove elezioni aprirebbero scenari per ora imprevedibili e intanto servirebbero a giustificare la richiesta all’UE di un’estensione dell’uscita oltre il 12 aprile. E costituirebbero una scelta democratica, come lo sarebbe quella di accettare un nuovo referendum.
Il Consiglio Europeo aveva indicato che, in caso di non approvazione dell’accordo, sarebbe spettato al Governo di Londra indicare “la via in avanti”. Governo e Parlamento hanno un tempo sempre più limitato per farlo. Il 12 aprile è alle porte, e Tusk ha annunciato di voler convocare prima di allora un Consiglio Europeo straordinario, davanti al quale la May dovrà dichiarare le intenzioni britanniche. Che possa portare una proposta coerente e realistica è perlomeno incerto.
A questo punto, ci si dovrebbe chiedere cosa sia meglio per l’Europa. Quando si assiste alle manifestazioni di odio sciovinistico si è tentati di dire: “Alla fine, se ne vadano, staremo meglio senza di loro!”; però c’è un’Inghilterra diversa, rappresentata da milioni di persone che si mobilitano per reclamare la loro appartenenza all’Europa. Speriamo che questa Inghilterra, alla fine, prevalga.
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