Una tigre di carta?
La tragedia del Venezuela sembra non avere fine. La sollevazione militare lanciata da Guaidó martedì scorso non ha avuto il successo che l’opposizione sperava; una parte dell’Esercito Nazionale Bolivariano vi ha aderito, ma i vertici, e il grosso delle FFAA, sono restati fedeli a Maduro, che garantisce loro privilegi di ogni tipo. Probabilmente Guaidó ha fatto un calcolo sbagliato e si è lanciato in un’avventura senza avere dalla sua parte almeno una alta probabilità di riuscita, e così ha esposto i militari che lo hanno seguito alla inevitabile vendetta chavista. Ora ha rilanciato l’azione civile, invitando a scioperi di settore che dovrebbero sfociare in uno sciopero generale, ma la partita resta durissima.
Sarebbe tutto sommato una tipica vicenda sudamericana, se non vi fossero i gravi, e sempre più evidenti, risvolti internazionali. Lasciamo da parte l’appoggio cubano a Maduro, che era naturale e scontato. Ma l’aspetto preoccupante sta nel dichiarato appoggio russo, non soltanto politico e a parole, ma militare e concreto. È certo che la Russia ha fornito a Maduro armamenti, aerei e soprattutto tecnici per istruire le FFAA e garantire la sicurezza dei più importanti esponenti del regime. E non si tratta di un’azione coperta e passibile di essere negata: malgrado le smentite dei portavoce del Cremlino, il gioco di Putin è scoperto.
Cosa si ripromette il Presidente russo? Rimettere un piede in Sudamerica, dar fastidio a Stati Uniti e Occidente, dimostrare l’onnipresenza di Mosca e il suo potere nel mondo. Lo fa giocando al limite, evitando provocazioni troppo aperte, ma lo fa colla pazienza di un giocatore di scacchi che non ha scrupoli né controlli. E con la tattica di attaccare sempre l’avversario ai fianchi, mai di fronte. Cosa fanno gli Stati Uniti davanti a queste manovre? La linea di Trump nei confronti di Mosca è stata fino a ora disgraziatamente incerta e oscillante: da una dichiarata volontà di apertura alla negazione di una pur evidente interferenza russa nelle elezioni americane, al ritiro dalla Siria e dalla Libia. È chiaro ormai che la prospettata apertura ha molto piombo nelle ali, ma non appare per ora alcuna linea alternativa. Però, se il Medio Oriente poteva essere giudicato nel pensiero trumpiano – anche se del tutto a torto – come un’area non essenziale, il Venezuela fa parte del “backyard” degli Stati Uniti, un’area che l’establishment washingtoniano (Pentagono, CIA, Senato, maggioranza repubblicana) può abbandonare allegramente. Basta pensare che gli USA erano pronti anche alla guerra per evitare missili sovietici a Cuba e basta ricordare la vicenda dei contras e del Nicaragua. Anche dal punto di vista della sua posizione interna, Trump non può apparire debole e, soprattutto, perdente in una vicenda così clamorosa come quella venezuelana.
Finora, tuttavia, da parte americana sono apparse sanzioni di dubbia efficacia, dichiarazioni minacciose, pseudo-rivelazioni (Maduro pronto a rifugiarsi a Cuba etc.), tutte mosse che espongono al ridicolo se restano inefficaci, ma è mancata l’unica che veramente può mettere in ginocchio, almeno a medio termine, il regime: un embargo totale sugli acquisti di petrolio, che probabilmente farebbe riflettere i generali che appoggiano Maduro.
Insomma, in questa partita tra lui e Putin, il Presidente americano deve dimostrare di non essere quello che, per un bullo come lui, sarebbe più devastante: una tigre di carta.
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