Esisterà ancora il mio lavoro?

Proviamo a farci qualche brutale domanda e a riflettere su risposte che già sappiamo ma sulle quali forse è opportuno soffermarsi un momento. Il lavoro che sto facendo oggi, esisteva dieci anni fa? E se la risposta fosse sì, veniva svolto nello stesso modo? Come si evolverà nei prossimi anni? E ancora: l’azienda per cui lavoro oggi, quando è nata? Esisterà ancora tra cinque o dieci anni? E, in ogni caso, sarà ancora la stessa?

Fino a circa dieci anni fa, esisteva una catena i cui proprietari, probabilmente, pensavano di potersi ritirare a breve a vita privata; invece i negozi Blockbuster sono stati rimpiazzati da qualche altra attività, oppure restano vuoti e abbandonati. Memorie di epoche che sembrano già lontanissime. Le videocassette le possiamo trovare accanto alle musicassette e ai floppy disk, altri oggetti che hanno avuto una vita fin troppo breve, insieme alle aziende e alle carriere lavorative di chi li produceva.

Altri esempi su cui non riflettiamo? Un tempo i genitori minacciavano il figlio che non voleva studiare di mandarlo a fare il meccanico o l’idraulico. Probabilmente molti di loro hanno importanti conti in banca, ma oggi per diventare meccanico, idraulico o elettricista, è necessario saperne quasi quanto un ingegnere, se non di più, ed avere un’abilitazione per firmare progetti e impianti. Il motore della nostra macchina? Un meccanico di venti anni fa, sarebbe in grado di ripararlo? Qualche dubbio sorge. E questi banali esempi si ritrovano in ogni realtà lavorativa.

Altra considerazione: Google ha da poco compiuto venti anni, Facebook quindici, Microsoft poco più di cinquanta. In un tempo relativamente breve, e muovendosi al passo dell’innovazione di cui sono protagoniste, hanno creato imperi che sembra non avranno breve durata. Si muovono guardando il futuro, e non sono legate a schemi statici. Anzi. Non faranno la fine della Commodore che, protagonista dell’avvio dell’era digitale, è fallita per scelte poco oculate che Gates, Zuckerberg o Page e Brinn non sembra vogliano ripercorrere.

Il mondo del lavoro, specchio della società veloce, è il luogo dove Panta rhei trova la sua massima espressione: in cui l’unica certezza sono l’incertezza e la mancanza di stabilità. Come pretenderla in un mondo in cui tutto cambia? In cui il cellulare che compro oggi tra tre mesi sarà obsoleto, sopravanzato dal nuovo modello superiore, e dove l’auto per la quale oggi mi sono indebitato fra un anno dovrà essere rimpiazzata da una intelligente e meno inquinante. L’era digitale, quella dell’IoT (internet delle cose), dove basta un terminale elettronico per monitorarci, impone cambi negli stili di vita e nel lavoro, altrimenti le conseguenze sono pesanti da pagare. Intanto godiamoci la parte migliore che ben può essere avere scoperto l’esistenza del sushi e della quinoa o di poter chattare con un nuovo amico in Australia; non è male poter ascoltare tutta la musica che vogliamo o serie TV preferita, scegliendo in una varietà di offerte mai vista prima.

Vediamo però anche la parte negativa, quella profetizzata da Umberto Eco quando, a ragione, disse che internet aveva dato voce a legioni di imbecilli; ma aggiungiamo che ha dato anche a stuoli di cretini l’illusione di potersi fare un’opinione dalla rete. Viene da chiedersi se non fosse esistito internet, avremmo i terrapiattisti, i negazionisti, i complottisti e i vegani o se, come nei bei tempi andati, avrebbero pontificato solo all’osteria dopo un paio di bicchieri di troppo.

Tutto ciò ha comportato cambiamenti nelle relazioni, nel modo di comunicare e di vivere. Trenta anni fa l’Avvocato Agnelli, per scrivere al manager di un’altra azienda, avrebbe chiamato la segretaria a cui avrebbe dettato una lettera che veniva prima stenografata, poi battuta a macchina e inviata via posta. Oggi, cellulari a parte, un manager scriverebbe da solo una mail. Non esiste più la stenografia, così come la macchina da scrivere e probabilmente molte segretarie. Di tutto ciò ce ne rendiamo conto quando ci scontriamo con le piccole cose quotidiane e, forse con un po’ di romanticismo, ci rendiamo conto che la marca di quel prodotto usato anni fa, è fallita; oppure è di proprietà di una multinazionale americana.

Ma, oltre a chiederci se siamo pronti per questo cambiamento o se abbiamo bisogno di qualche forma di anestesia, è se ne siano consapevoli coloro che ci guidano e chi dovrebbe gestire al meglio il mondo del lavoro che maggiormente ne viene toccato: politici e sindacati.

La risposta sembra sia negative. La recente vicenda del fallimento di Mercatone Uno ne è probabilmente l’ennesimo esempio. La catena di ipermercati è fallita dopo anni di agonia; l’attenzione è stata focalizzata prima sulle immagini di Marco Pantani, che correva con quella maglia; poi sulle manifestazioni dei lavoratori che, giustamente, rivendicavano i loro diritti. Molta enfasi sul fatto che erano venuti a saperlo dai social, forse l’unico aspetto di innovazione emerso. Sindacati e politici si sono schierati dalla loro parte. Poca attenzione è stata data alle aziende travolte da questo fallimento, vale a dire i fornitori che, a loro volta, vedono in pericolo la loro esistenza. Ma da questo ennesimo triste episodio non si sono levate molte voci sugli aspetti della possibile prevenzione e, ancora una volta, emerge quello che è uno dei mali che caratterizzano l’Italia: l’amore per la stabilità e le certezze e, in primis, il posto fisso. È da sempre il sogno dei più, alimentato da generazioni in cui la parola d’ordine era “vai a scuola e prendi un pezzo di carta, dopo troverai un lavoro e ti sei sistemato.”

Ricordiamo questo leitmotiv? Deve essere ancora attuale, visto il numero crescente di pseudo scuole che garantiscono promozioni e anni di recupero o titoli di studio presi in Albania, oltre abilitazioni in Spagna o Romania.  Discorso lungo da affrontare ma che in questa vicenda dimostra una volta di più l’inadeguatezza di un sistema che ha portato una fetta dell’imprenditoria, ma anche politici, sindacati e, non ultima colpevole, la scuola, a non essere attenta ai cambiamenti che stavano già arrivando.

Nel caso specifico la causa del fallimento di Mercatone Uno può essere una scelta imprenditoriale errata quando giunse la prima crisi; ma la scelta di proseguire l’agonia si è rivelata sciagurata e ha illuso i lavoratori che ne hanno fatto le spese. Era evidente che il mondo della distribuzione stava cambiando, ma nessuno ha voluto prenderne atto e, da quanto si legge sulla stampa, si cerca ancora di risolvere il problema con sistemi quali gli ammortizzatori sociali, forse utili nel breve periodo ma illusori nel lungo termine. E’ stata presentata anche un’inutile interrogazione parlamentare e si chiedono risposte per i lavoratori. Invece di CIG o ammortizzatori sociali non sarebbe stato meglio a suo tempo, un percorso di studi o riqualificazione?

Si dovrebbe invece ripartire dalla domanda posta all’inizio: il mio lavoro esisterà ancora tra cinque anni? Lo sappiamo benissimo che, anche se esistesse, dovrà essere fatto in maniera diversa. Quindi la risposta non dovrà essere “cerchiamo di salvarlo”, ma trovare il modo di prepararsi a quanto avverrà. Politici, sindacati e scuola, hanno un’importante missione da compiere.

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