Lifelong learning, necessità od ossessione?
Si parla spesso di persone che non mollano mai, che collezionano lauree, diplomi, abilitazioni e che, pur essendo ormai affermate nel lavoro, continuano a formarsi, secondo uno schema differente dalla pratica di un mero hobby. È quindi lecito domandarsi come mai questo accada. Cosa possa realmente spingere qualcuno a studiare e a imparare in continuazione nuove nozioni o discipline, spesso lontane o poco contigue alla sua professione. Il tutto, salvo scoprire che imparare qualcosa di nuovo o perfezionare in maniera specialistica un sapere (prima posseduto solo genericamente) è tutt’altro che inutile.
Stiamo parlando del lifelong learning, ossia dell’imparare e dello studiare per tutta la vita. Per alcuni è ormai un’ossessione. Positiva, s’intende. Nata come concezione individuale di formazione personale, tale dottrina ‒ definita anche “apprendimento permanente o “continuo” ‒ ha invece guadagnato nel tempo dei risvolti di natura sociale (quasi di “ingegneria sociale”), tanto da trovare applicazione nelle differenti teorie di impiego delle risorse umane da parte di aziende ed istituzioni. Poco, a dire il vero, nella formazione dell’establishment politico, almeno in Italia.
Siamo ormai lontani dagli anni ’60 o ’70 in cui – pur trovandoci in pieno boom economico – l’istruzione richiesta alla popolazione era solo quella limitata ad ottenere e a conservare un lavoro; intendendo per “popolazione” solo quella lavoratrice, significando che gli inoccupati, magari per limiti d’età, non avevano il dovere – e forse neanche il diritto – di formarsi ulteriormente.
Oggi il concetto di lifelong learning si sta addirittura trasformando in quello di lifewide learning: ossia la possibilità/necessità che ogni aspetto della vita, anche quello esperienziale, possa essere un’ulteriore occasione di arricchimento culturale e professionale. L’apprendimento dottrinale, sostanzialmente, si fonde con quello empirico e proprio della quotidianità.
I risvolti di taglio internazionale non sono tardati ad intervenire: ha cominciato l’UNESCO nel 1972, col documento “Learning to be”, in cu si affermava l’importanza di una formazione in tutte le fasi, luoghi e modalità di svolgimento della vita.
Ma una grande lezione di civiltà, al riguardo, ci è data dalla tanto deprecata Unione europea: già ai tempi della CEE, col Trattato di Roma, oggi ancora vigente, si parlava di un obbligo della Comunità nei settori dell’istruzione e dell’informazione. Si pensi ai programmi Socrates, Leonardo o Erasmus. Successivamente, negli anni 2000, la Comunità – poi diventata Unione – si è prefissa l’obiettivo comune di migliorare all’unisono i sistemi di istruzione e formazione degli Stati membri, rendendole libere e fruibili per i cittadini comunitari e non.
Da qui in poi, il processo e l’importanza del lifelong learning non si è mai più arrestato: le istituzioni ONU garantiscono tale tipologia di formazione per i propri dipendenti di ogni categoria, le più grosse aziende prevedono delle fasi formative per i propri dipendenti nell’arco di tutta la loro carriera. Ne deriva che la formazione continua è divenuta una strategia globale, non sistematica, che riguarda oggigiorno una moltitudine di soggetti istituzionali e di attori sociali. Il suo obiettivo primario è diventato quello di assicurare l’inclusione nella società e nel lavoro.
L’importanza dello studio, della cultura specialistica, ma anche dell’ecletticità – ovviamente non dispersiva e fine a sé stessa, quale mero esercizio di erudizione – l’interesse verso qualunque soggetto che possa migliorare la persona umana, quindi, non possono non tradursi in una società migliore, arricchita da inclusione, eguaglianza di genere, assottigliamento della stratificazione sociale.
Alla luce di questi obiettivi, la formazione continua, a tutte le età, non dovrebbe essere più un’opzione, ma un imperativo morale che valga per i singoli cittadini ed ancor di più per la classe politica, che andrebbe valutata e scelta anche sotto questo aspetto.
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[NdR – L’autore dell’articolo, giornalista pubblicista, è Direttore dell’Area Giornalismo del Centro Studi Criminologici di Viterbo, professore a contratto presso l’università Niccolò Cusano di Roma e membro del Comitato scientifico del Centro Studi Socio-Economici Roma3000, oltre che componente della redazione di European Affairs Magazine]