La solitudine del naufrago in Rete
Immagini di persone che camminano o li vediamo in autobus o sul treno, concentrati sul proprio cellulare. Gruppi di ragazzi seduti ai tavoli di un bar, ognuno intento a guardare il suo schermo, spesso ignaro di ciò che avviene intorno a loro. Coppie che sono al ristorante e parlano fittamente con il resto del mondo, mediante l’estensione digitale del braccio. Scene ordinarie nell’era del digitale. Gli strumenti elettronici hanno cambiato il modo di vivere, di comunicare, di socializzare, di lavorare. Nel mondo del business, fino alla fine degli anni novanta, il fax sembrava già un metodo di comunicare rivoluzionario; il PC ha mandato in soffitta la macchina da scrivere, la carta copiativa e le stenodattilografe (per chi ricorda che lavoro svolgesse). Le mail hanno fatto crollare il lavoro tradizionale degli uffici postali. E questo è un lato forse positivo, tranne che per le figure professionali che non esistono più, ma soppiantate da analisti di sistemi e programmatori. Questo sviluppo ci permette di usufruire al meglio delle nuove tecnologie e l’Internet delle cose (IoT) è in costante sviluppo: che bello arrivare a casa dal lavoro e avere programmato dallo smartphone di trovare un bagno caldo e una tazza di tè bollente. Ma ogni medaglia ha il suo rovescio.
Tutti noi, più o meno, ci rendiamo conto del ruolo che svolgono i social sulla nostra quotidianità. Non mentiamo a noi stessi. Quanti possono dire che il primo gesto al risveglio, non è quello di controllare i messaggi ricevuti o le reazioni agli status sui social? Sembra esistano persone che come primo gesto quotidiano mandano a decine di contatti il “buongiornissimo” e invitano a bere un Kaffeissimo decine di follower; qualcuno non esce di casa senza avere ascoltato il consiglio quotidiano del suo influencer; altrimenti non sarebbe un follower. Estremismi e esagerazione? Spero essere smentito.
Ma consideriamo quello che sono e rappresentano i social, i più vasti oceani nel mondo della rete: quel mare magnum di cui si dice che “se non ci sei non esisti”. Ed esistere è sinonimo di vivere. I social sono stati paragonati a piazze, virtuali, dove le persone si incontrano, si conoscono, si scambiano opinioni, simpatizzano e, forse, si incontrano. Sicuramente Mark Zuckerberg ha contribuito alla definitiva estinzione delle agenzie matrimoniali.
Ma siamo sicuri che i social siano piazze e non altro? Circola in rete la barzelletta di un tizio che, invece di postare status su Facebook, decide di farlo, come avremmo fatto in passato, su una vera piazza. Va quindi in giro a dire che cosa ha mangiato, fa vedere le foto del suo gatto, tocca le persone dicendogli “mi piaci” e cerca di intervenire nelle conversazioni altrui. Conclude dicendo che i suoi follower sono i carabinieri e uno psichiatra. Mi sembra un quadro molto aderente a una possibile realtà non virtuale.
Chi posta qualcosa in rete, lo fa per essere seguito, per capitalizzare like, per avere follower, per attirare l’interesse degli altri. Che sia la vecchia cerchia di amici o un nuovo gruppo di manti del trekking o di cultori delle medicine alternative o la setta segreta della carbonara. Chi lancia nella rete una sua frase, un pensiero, una fotografia, vuole diventare il centro di attenzione di un pubblico potenzialmente infinito, godere il proprio attimo di celebrità.
Lo fanno le aziende per farsi conoscere su tutte le piattaforme; lo fanno giornalisti e politici su Instagram e Twitter; e quest’ultima sembra stia soppiantando addirittura Facebook che, pur avendo da poco compiuto quindici anni, è considerata il social network dei vecchi. Restiamo in attesa del nuovo che avanza.
I social sono uno sfogo per molti; per altri un momento di pausa o di piacere, prima di tornare nel proprio mondo reale, fatto di contatti, di abbracci, di baci e strette di mano. Per molti sono una ragione di vivere: l’esistenza; una rivalsa su tutto e tutti. La figura dell’admin di un gruppo Facebook che ha il potere di espellere dal cerchio magico chi gli è antipatico o non si attiene alle sue regole, è una forma di esercizio del potere perfido e subdolo. Allo stesso modo poter commentare sui social può dare a molti quella possibilità che gli è negata nella vita: avere l’ultima parola. Mettere termine alla discussione con una sentenza inappellabile. Soddisfazioni.
Ma probabilmente lanciare messaggi sui social può essere visto anche sotto un diverso punto di vista. Probabilmente psicologi ben più qualificati e sociologi lo hanno già fatto. Sono richieste di aiuto; sono richiami lanciati nel vuoto, nella speranza che vengano raccolti. I naviganti, qui, non sono più persone che cercano di incontrarsi sulla rete, ma naufraghi. Naufraghi che lanciano messaggi in bottiglia e sperano che la corrente li porti al destinatario giusto, continuando a sperare che li raccolga, comprenda e risponda. Sono tristi segnali di una solitudine che internet sembra averci costruito intorno e che cerchiamo, oltretutto, di proteggere e mantenere, appellandoci ad una privacy che non esiste più; alla quale abbiamo abdicato.
Navigatori della rete? Il concetto va rivisto. Forse è navigatore chi cerca una notizia o un prodotto, o un’azienda che offra un posto di lavoro. Ma i social sono popolati solo da naufraghi, che dalle loro isole della loro solitudine, mandano messaggi in bottiglia.
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