Un mondo del lavoro in estinzione?

La vicenda Whirlpool di Napoli, alla quale il governo sembra stia alacremente lavorando, è l’ennesimo campanello di allarme che, si teme, possa essere ancora una volta non compreso e sottovalutato. Il concreto rischio che lo stabilimento chiuda, con le inevitabili e immaginabili conseguenze sui lavoratori esiste, nonostante Di Maio si fosse a suo tempo pubblicamente vantato di avere risolto il problema. Dalla stampa si apprende che sarebbero oltre 150 i casi analoghi in Italia: dopo quello del fallimento di Mercatone Uno si parla anche di Blutec, Pernigotti e, ovviamente, Alitalia. Tutte bombe che possono esplodere con effetti catastrofici che non si limiteranno solo alle realtà locali.

Queste situazioni sono però, probabilmente sono solo la punta dell’iceberg di un problema ben più grave del mondo del lavoro in Italia, di cui si parla da anni ma niente è stato concretamente fatto.  Possiamo in estrema sintesi sostenere che le strutture legislative, contrattuali e salariali non si sono adeguate ai nuovi contesti e nuovi scenari che stavano sviluppandosi a seguito della globalizzazione e della rivoluzione digitale? Forse è un’interpretazione sintetica, ma sostenibile.

In tempi già sospetti, governi passati e imprenditori poco o nulla hanno fatto per affrontare i nuovi contesti, confidando su presunte stabilità, attaccamento a luoghi comuni e vacche sacre, non ultima le forme di assistenzialismo statale che contraddistinguono il nostro sistema. Forse anche molti imprenditori non sono immuni da colpe, ma anche i sindacati.

La rivoluzione tecnologica e quella informatica, sono le vere protagoniste del periodo che va dagli anni settanta ad oggi, e la seconda, ancora in corso, è inarrestabile. Tutto ciò ha influenzato pesantemente il nostro modo di vivere, dalle abitudini quotidiane agli orari fino al mondo del lavoro. Hanno contribuito i trasporti, la globalizzazione, la velocità delle informazioni e altri fattori che ben conosciamo. Chiunque, nel suo piccolo, ha cercato di adeguarsi, anche solo cambiando alcune abitudini. Chi invece non sembra si sia voluta muovere, è la sovrastruttura del mondo del lavoro che, viceversa, è ancora ferma ad un sistema che ha ben funzionato negli anni del boom economico e che, dopo le riforme della fine degli anni sessanta, non si è più adeguata.

Il sistema lavorativo è ancora legato, come struttura mentale e archetipo, all’orario 8-17 cui siamo mentalmente legati, oggi una pesante palla al piede in un’economia che va alla velocità dei nuovi strumenti tecnologici. Allo stesso modo siamo ancora fermi a quello che è probabilmente in concetto più obsoleto e dannoso che possa oggi esistere: il posto fisso a vita. Ed i sindacati poco fanno per cercare di porre rimedio a quello che è un problema mentale e sociale; ma anche gli stessi lavoratori, che non vogliono certo lasciare le sicurezze della loro comfort zone, si trincerano dietro le loro barricate per difendere lo status quo. Difficile comunque dare loro torto: debiti da pagare e nessuna prospettiva futura sono incubi contro cui sarebbe difficile da lottare. Ma il rischio è quello di vincere battaglie per tornare al passato e mantenere aziende decotte e posti di lavoro destinati comunque a morire. La staticità nel mondo del lavoro è probabilmente uno dei mali endemici italiani.

Vengono in mente le parole di Beppe Grillo sui sindacati; ma non quelle nei suoi tour elettorali dove ne chiedeva l’eliminazione, ma quelle di un suo monologo, quando ancora cercava di fare il comico e, prendendosela con la Cina, disse che il modo di bloccare la sua avanzata economica, sarebbe quello di esportare i nostri sindacati a Pechino. Forse l’unica affermazione corretta che abbia mai fatto. Non si può certo dire che i sindacati, comunque strutture di salvaguardia e sostegno in ogni democrazia, abbiano sempre lavorato nell’interesse né dei lavoratori (il caso Almaviva a Roma ne è forse l’esempio più eclatante) né in ogni caso di quello complessivo del mondo del lavoro. Il loro ruolo si rivela quasi sempre essere quello della tutela delle posizioni e degli status quo, fossilizzandosi sulla tutela di situazioni che, viceversa, dovrebbero essere gestite con un occhio più rivolto alla salvaguardia e allo sviluppo di un’industria che non a quella di posti di lavoro che, in realtà, protraggono l’agonia di imprese decotte, obsolete, fuori mercato. E lo stabilimento Whirlpool di Napoli probabilmente lo è.

Potremmo guardare alla Francia, dove si registrano segni di miglioramento dopo la riforma voluta dal presidente Macron, che gli è costata un forte calo di popolarità, ma che sembra possa sbloccare il   mercato del lavoro. Possibilità di contrattazione diretta, senza l’intervento dei sindacati, nelle aziende medio piccole, premi di produzione, riduzione degli indennizzi in caso di licenziamenti, maggiore libertà sui contratti a tempo determinato. Tutti provvedimenti ovviamente non ben visti dai sindacati ma che potrebbero nel medio lungo periodo portare ad una svolta epocale che, probabilmente, adeguerebbe il mondo del lavoro all’epoca in cui viviamo.

Ma siamo ancora attaccati al posto fisso, allo stipendio sicuro, alla comfort zone. Tutti concetti in via di estinzione. Prendiamone atto.

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