Restauri a rischio chiusura
La sopravvivenza delle ditte di restauro, un settore strategico per la conservazione del nostro patrimonio storico-artistico, è a rischio nel nostro Paese. L’ambito legislativo nell’ultimo anno è stato d’ostacolo ed è andato contro quanto previsto dal Codice dei Beni Culturali. Nessuna paura: le comuni imprese edili sono già pronte a subentrare.
Si è cercato di stilare elenchi di specialisti e ditte abilitate per garantire la massima qualità negli interventi, come previsto dal Codice dei Beni Culturali, fino all’approvazione della malaugurata sentenza. Il 26 aprile 2013 il Consiglio di Stato ha accolto il ricorso delle maggiori imprese edili di eseguire lavori di tipo specialistico, come appunto quelli del restauro artistico. Queste imprese, come Condotte, Grandi Lavori Fincosit, Impregilo, si erano scagliate contro il Presidente del Consiglio e i ministeri dei Beni culturali e delle Infrastrutture, chiedendo che fosse modificato in loro favore il Codice degli Appalti Pubblici.
Le 36 imprese specialistiche e superspecialistiche sono state cancellate dalla lista, dopo il decreto del Presidente della Repubblica del 30 ottobre 2013. A seguire, il via libera alle comuni imprese edili nella gestione e nell’esecuzione di qualunque lavoro, quindi anche il restauro. Un personale non specializzato, dato da operai e muratori, avrebbero potuto occuparsi di materiali, come pietre antiche, colonne, capitelli e fregi, bisognosi di ben altra attenzione.
Che cosa sarebbe rimasto alle imprese di restauro specializzate? Un occasionale e ridicolo subappalto, su richiesta delle imprese edili e senza gara pubblica, nella frettolosa assenza di tutela e trasparenza. Il Ministro MiBACT Massimo Bray e quello delle Infrastrutture e dei Trasporti Maurizio Lupi sono allora intervenuti e
il 18 dicembre 2013 il Senato ha approvato un emendamento transitorio. L’emendamento sospende momentaneamente gli effetti del decreto presidenziale e concede 6 mesi per revisionare l’elenco delle ditte specialistiche cancellato e reinserire le ditte di restauro.
Una soluzione transitoria, un temporeggiamento, di cui intanto accontentarsi, quando si sa già, nonostante i costi elevati, come fare il bene del Paese. C’è chi non aspetta e nel tempo compreso tra il ricorso delle imprese edili e il rovinoso decreto, il 19 settembre, ha preso forma definitiva: l’ONLUS italiana Restauratori Senza Frontiere (RFS), data da liberi volontari e professionisti iscritti agli Albi.
Consapevole, riporta la condizione in Italia di «un settore socio-culturale spesso trascurato e sottovalutato, sia sotto il profilo dello sviluppo economico, sia in ambito legislativo, con tutte le implicazioni, non esclusivamente settoriali, di carattere sociale e umanitario». Termini come “tutela”, “rivalutazione”, “manutenzione”, “valore” e “fruibilità” in campo archeologico compaiono in uno Statuto di un ONLUS, prendendo come esempio la nota Medici Senza Frontiere.
L’intenzione è di intervenire internazionalmente dove c’è bisogno, secondo il concetto di World Heritage, anche attraverso la formazione di addetti specializzati nella tutela e nel pronto intervento. Questo lavoro di sviluppo del capacità e delle competenze dei singoli individui e delle comunità, evita la dipendenza continuativa dall’aiuto esterno. L’utilità sociale e umanitaria è alta, come il conseguente contributo all’economia.
Il futuro dei restauratori rimane in forse, a fronte delle continue minacce alla corretta conservazione dei nostri beni culturali e di iniziative intelligenti. Le limitazioni fanno sì che gli specialisti si convertano in volontari, con lo scongiuro che non diventino dei semplici amatori. In un senso più immediato «i prevedibili danni irreversibili al patrimonio architettonico e storico-artistico», intesi da RFS, saranno quelli derivanti dal lavoro di imprese edili comuni non di competenza, pronte ad arricchirsi.
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