Lettera aperta a Giorgio Napolitano
Caro Presidente, sono quasi trent’anni che ho il privilegio di conoscerLa, trent’anni di crescente rispetto e, se me lo consente, affetto, da Lei ripagati con una costante benevolenza. Permetta ora che Le scriva queste parole.
Uno degli aspetti più disgustosi di questi ultimi mesi nel nostro infelice Paese sta negli attacchi contro la Sua persona da parte di quello che c’è di peggio nella politica italiana. Brutti gli insulti, imperdonabile il silenzio di chi pur dovrebbe levarsi a difenderLa alto e forte, a cominciare dal partito da cui Lei proviene e che ha tanto onorato.
Perché tanto livore? Perché Lei è l’argine che tiene unito il Paese e gli permette di “tenere” contro le previsioni e le speranze dei clown di vario pelo che hanno tutto da guadagnare dal “tanto peggio tanto meglio”. Venendo da Grillo, la cosa non stupisce: sin dall’inizio sappiamo che vive di odio e di turpiloquio, nient’altro. Per la Lega razzista e antitaliana, Lei è il simbolo di quell’unione nazionale che sta di traverso alle follie separatiste. E Berlusconi? Qui il discorso si fa più complesso e più triste: non è lo stesso uomo che corse al Quirinale chiedendoLe di accettare la rielezione (il pericolo, allora, era Rodotà), lo stesso che ha applaudito a piene mani quando Lei ha bloccato il dissennato tentativo bersaniano di una maggioranza PD-5 Stelle e fatto da padre al Governo delle larghe intese? Le condizioni di base da allora non sono mutate: la situazione economica continua a richiedere stabilità ed incisività dell’azione di governo; il pericolo per la democrazia rappresentato dalle orde grilline è tuttora vivo e continua a imporre la collaborazione tra forze responsabili ed “europee”. Ma nel frattempo sono avvenute a Berlusconi cose che erano in realtà prevedibili: due condanne penali, di cui una definitiva, e la sua inevitabile conseguenza, la decadenza da Senatore. C’è da chiedersi: quando nella primavera del 2013 il Cavaliere si comportava da statista responsabile, sapeva che queste cose sarebbero potute avvenire? O pensava che l’appoggio a Lei e a Letta, dato per chiara convenienza propria, potesse essere barattato contro la benevolenza dei giudici o una specie di indulgenza plenaria da parte Sua? O con la connivenza del PD nell’evitargli la perdita del seggio a Palazzo Madama? Se così è, vuol dire che il Cavaliere vive in un mondo completamente staccato dalla realtà, completamente alieno al principio di legalità e, beninteso, dalla considerazione di ogni interesse che non sia il proprio. Perché, se c’è nelle azioni umane una qualche logica, la sola spiegazione all’accanimento nei Suoi confronti sta, dapprima, nel livore per non aver Lei offerto spontaneamente una grazia che avrebbe sollevato l’indignazione del 70% degli italiani, e ora nella Sua giusta resistenza a nuove elezioni, dalle quali il Cavaliere sogna una rivalsa contro il destino cinico e baro: un’amnistia che lo lavi dei suoi peccati, l’elezione di un Presidente “amico” che azzeri le sue condanne, passate, presenti e future.
Non sapendo cos’altro inventarsi – essendo le ciance di impeachment manifestamente sballate – i clown hanno partorito, in commovente sintonia, l’idea geniale di boicottare il Suo discorso di fine anno. A queste insanie, non si sa se più grottesche o infantili, ha risposto a dovere la gente: quasi 10 milioni di persone l’hanno ascoltata, in aumento rispetto allo scorso anno. Per i clown, una figuraccia! Per Lei, la conferma che la gente continua a seguirLa e appoggiarLa.
Nel Suo discorso, Lei ha dato ancora una volta una lezione di correttezza, dignità e senso dello Stato, non rispondendo a insulti e calunnie, ma avvertendo che non se ne lascerà condizionare. E una specifica lezione l’ha impartita a chi ciancia di una Sua perversa brama di potere (loro, che lontano dalle poltrone fremono e appassiscono) ricordando che non intende restare al Quirinale più del tempo necessario. Tre condizioni, Lei ha detto, per la Sua permanenza in un tempo comunque non lungo: che serva alle istituzioni e al Paese, che sia possibile e che le forze non le vengano a mancare (doveva aver presente, nel dirlo, l’esempio di Papa Ratzinger). È giusto così, e nessun Suo amico vorrebbe veder prolungata oltre il necessario una fatica così ingrata. Mi permetta solo di augurare, non a Lei ma all’Italia, che le condizioni per il Suo addio non maturino troppo presto. Abbiamo ancora bisogno di Lei, della Sua saggezza, del suo amore per il Paese. Non abbia fretta di andarsene.
E se, nel Suo tono, è parso di riscontrare qualche venatura di amarezza, pur comprensibile, mi permetta di dirLe che non debbono essere la miserabili vociferazioni di nani, clown e ballerine ad alterare la serenità che Le deve venire dal sentimento del dovere compiuto e dall’affetto della maggioranza degli Italiani. Guardi bene chi sono i Suoi critici, che collezione di farneticanti. E stia sicuro: loro passeranno, Lei resterà nella Storia e nella gratitudine del Paese.
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