Ipocondria di Stato?
Ultimamente, su alcuni giornali e riviste, leggo una frequente riflessione: il fatto che gli italiani, in questo periodo, stiano vivendo di fatto un secondo lockdown. Mi spiego meglio: l’onda dell’allarmismo e del pericolo non si è mai fermata. È vero che ci sono più contagi, è vero che ci sono più positivi non sintomatici, ma è vero anche che stiamo eseguendo più tamponi. La differenza sostanziale è che le terapie intensive oggi per fortuna non sono in crisi e che ormai il materiale per sopperire da un punto di vista medico all’emergenza sanitaria sembra non mancare.
È pur vero, però, che le autorità politiche stanno continuando a cavalcare quest’onda. L’onda della paura, infatti, può consentire che gli Italiani accettino l’attività di decretazione d’urgenza e l’adozione di misure straordinarie che, ancora una volta, scavalcano ogni democraticità delle decisioni politiche, superano in maniera molto veloce il dibattito parlamentare (anche se questo dibattito è molto spesso scontato).
È stato impresso nella popolazione un male che talvolta può rivelarsi incurabile: l’ipocondria. L’ipocondria è una patologia di natura psichiatrica che determina un’ansia nel paziente, che teme costantemente di contrarre malattie o teme che altri attorno a lui possano essere vittima di qualsivoglia patologia. In questo caso, io parlerei proprio di “ipocondria di Stato”. Non perché lo Stato sia ipocondriaco o lo siano i politici, ma perché – di fatto – questa ipocondria ci è imposta.
Con questo non voglio assolutamente invitare i lettori a non ottemperare alle disposizioni ormai vigenti e assolutamente già radicate nel vissuto comune di tutto noi; ben vengano le mascherine, quindi, il distanziamento sociale e l’accesso contingentato a luoghi ed esercizi pubblici. Ritengo però che si stia diffondendo nel Paese un’insana paura di ammalarsi, che di fatto sta nuovamente affliggendo l’economia, la socialità e altre modalità di espressione dell’agire umano.
Con l’ipocondria di Stato molte persone hanno continuato a rimanere in casa come a marzo, molte attività hanno cessato definitivamente di esistere e non rinasceranno più, con i ben noti effetti disastrosi sulla nostra economia. Economia azzerata vuol dire nuove forme di assistenzialismo esasperato. Nuove forme di assistenzialismo portano inevitabilmente nuovi voti e la riconoscenza di chi preferisce stare a casa e non lavorare, piuttosto che rimboccarsi le maniche e darsi da fare, oltre che per sé stessi anche per il bene della Repubblica.
La pubblica amministrazione, che dopo un iniziale periodo di arresto si era data una notevole mossa sul fronte della digitalizzazione, adesso ha nuovamente rallentato la sua evoluzione tecnologica. Ormai il Paese è abituato ai call center, ai siti internet e alla inevitabile lentezza della burocrazia perché si sa, “ormai, c’è il covid”.
Ma quanto può durare questo genere di situazioni? Quanto ancora ci vorrà per avviare a pieno regime il funzionamento della macchina statale e dell’ apparato economico? Lo smart working finirà mai? Sono domande che dobbiamo porci. Perché se è vero che il Covid ha ucciso e continuerà a uccidere, e se è altrettanto vero che dobbiamo prepararci a resistergli ancora a lungo, dobbiamo anche pensare che la pandemia possa non finire mai. Quindi, se la malattia durerà per sempre e farà sempre parte delle nostre giornate, dovremo sempre subire questa ipocondria di Stato? Quanto tempo ci vorrà per mettersi a regime e funzionare come una volta, così come già avviene in altri Stati dell’UE? Ne vedremo ancora delle belle.
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