La chiusura della mia scuola
La pandemia del Coronavirus ha provocato in otto mesi tragedie inimmaginabili, di fronte a cui il piccolo fatto di cui sto per parlare è davvero insignificante, quasi frivolo. Me ne scuso, perciò, con chi legge. Ma alle volte sono piccole, insignificanti vicende che ci colpiscono d’improvviso e che ci danno il senso diretto, immediato, della tragedia che si sta vivendo.
La notizia che mi ha colto di sorpresa è la chiusura temporanea del Liceo romano De Merode a Piazza di Spagna per un caso di contagio constatato tra gli allievi dello Scientifico. Il San Giuseppe-De Merode, è stata, tanto tempo fa, la mia scuola, quella a cui devo (in bene e in male) gran parte della mia formazione umana e personale. Lì ho fatto le prime esperienze di crescita, lì ho formato le prime amicizie, alcune restate vive per tutta la vita. La stampa la definisce “scuola dei VIP”. Che è una definizione un pò deformante, perché veramente nessuno dei noi si sentiva un VIP (parola che del resto allora, nel primo Dopoguerra, non si usava neppure).Certo, la retta abbastanza alta rendeva naturale una certa selezione, ma se ripercorro con la memoria la lista dei miei compagni, trovo, accanto a qualche nome aristocratico o di alta borghesia, una maggioranza di nomi di borghesia media, figli di funzionari di banca, di commercianti e professionisti di un certo successo e così via.
Ricordo bene che, all’inizio dell’anno scolastico, il Rettore, nel discorsetto di apertura con cui ci ammoniva a comportarci bene, non mancava di menzionare il fatto che il Collegio non aveva esitato a espellere, per cattivo comportamento, il giovane Calvi di Bergolo, “nipote del Re”. Evidentemente, i Fratelli delle Scuole Cristiane si proponeva di riunire un insieme di alunni destinati a costituire, non l’élite (nozione già allora fuori moda) ma il tessuto connettivo di una società civile responsabile. In questa funzione, tradizionale in Inghilterra (si diceva che l’Impero inglese era stato conquistato nei campi di gioco di Eton) e in certa misura, e in modo più democratico, in Francia con l’ENA, i “Frères” supplivano a una carenza strutturale, e credo persistente tuttora, nel nostro Paese, che non ha mai compreso l’importanza di formare sin dalla scuola una classe dirigente all’altezza della necessità.
Un esempio del “metodo” dei Fratelli era visibile il giorno del Saggio annuale di chiusura. Tutti gli alunni eseguivano insieme esercizi ginnici e ritmici e cantavano inni tradizionali, dopodiché venivano distribuite generosamente medaglie per vari meriti. Tutto questo nel grande cortile interno riempito del pubblico delle famiglie. Nella prima file sedevano le “Autorità”: non Altezze Reali o Principi romani, ma Prefetti, Ammiragli, Generali, politici di rilievo (mio padre, senatore e Sottosegretario alla Difesa, sedeva sempre tra di loro) e ciascuno di noi premiati sceglieva uno di loro (mai il proprio padre, sarebbe stato di cattivo gusto) per farsi appuntare le medaglie al petto (io andavo ogni anno dall’Ammiraglio Roesler Franz, splendido nella immacolata divisa bianca).
In una foto del Corriere ho rivisto il grande cortile a colonnate, maestoso e severo. E un’ondata di ricordi dolciamari mi ha sommerso. Chiudo perciò qui questa nota, che sta diventando troppo personale. Caro San Giuseppe-De Merode, cari e indimenticabili “Frères”! Mi auguro che la chiusura sia breve e che voi possiate riprendere presto a condurre il vostro nobile compito.
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