Elsa Fornero: pensioni ieri, oggi, domani
E’ Professore Onorario – un titolo che si attribuisce a chi, avendo fatto cose egregie, ha raggiunto l’età della pensione – di Economia all’Università di Torino. Anche se in pensione, Elsa Fornero continua a svolgere una notevole attività di ricerca e coordinamento scientifico del CeRP, un centro di studi pensionistici a livello europeo del Collegio Carlo Alberto di Torino. E la sua attività ha sempre avuto una forte componente estera: è stata membro del collegio dei docenti dell’università olandese di Maastricht, ha ricoperto e ricopre numerosi incarichi in gruppi internazionali di ricerca che si occupano di welfare e di educazione finanziaria, ha valutato per la Banca mondiale i sistemi pensionistici di numerosi paesi. E l’elenco potrebbe continuare a lungo, comprendendo anche un incarico politico locale: nel 1992 fu eletta al consiglio comunale di Torino nella lista civica “Alleanza per Torino” del sindaco di centrosinistra Valentino Castellani, e fu presidente della Commissione Bilancio del Consiglio Comunale.
Il suo nome è però largamente noto per la sua esperienza di Ministro del Lavoro e delle Pari Opportunità nel “governo tecnico” di Mario Monti, che rimase in carica dal novembre 2011 alla primavera 2013 con il consenso – seppure piuttosto freddo – della gran parte delle forze politiche, da PD a Forza Italia. Il suo incarico di Ministro è legato a due riforme fondamentali, quella delle pensioni, messa a punto in venti giorni con lo spettro di una gravissima crisi finanziaria, e quella del mercato del lavoro, della primavera 2012. Riforme che hanno profondamente inciso sulla vita e sulle prospettive future di milioni di italiani.
Della sua esperienza di governo ha detto: “Ho compreso l’importanza di possedere non soltanto competenze tecniche, ma coscienza ed equilibrio interiore. Ho sperimentato che l’economia, con il suo rigore e la sua forza metodologica, è una guida molto imperfetta per risolvere i problemi della società, ma non se può fare a meno. Faccio mio il verso della poetessa Wislawa Szymborska: È facile, impossibile, difficile, ne vale la pena”. L’abbiamo intervistata.
Lei è una dei massimi esperti di pensioni in Italia. Quando nel 2011 venne chiamata dal Presidente Monti a occuparsi del problema era quindi, immagino, ben conscia del ginepraio in cui andava a mettersi?
Ci sono due considerazioni da fare. La prima è che, forse ingenuamente, pensai che il paese volesse davvero cambiare direzione, venendo da anni molto difficili di crisi finanziaria e di risultati molto deludenti rispetto ai nostri vicini europei. Ricorderà che furono anche anni di forte contrapposizione politica, con tensioni crescenti sia sui mercati finanziari sia a livello sociale. Fino a quel novembre 2011 non avevo mai preso in considerazione l’idea di ricoprire il ruolo di ministro. Anche se, essendo un professore universitario, e quindi dipendente pubblico, ero più che favorevole a mettermi al servizio del mio paese (l’avevo già fatto accettando l’invito a far parte di numerose commissioni pubbliche su questo problema) nel momento del bisogno. Sentivo il dovere di mettere le mie conoscenze a disposizione, e ricordo con piacere Ferruccio De Bortoli che, qualche anno più tardi, in un convegno, disse pubblicamente: “Elsa Fornero non è stata una donna di potere, ma una donna di dovere”. Che ci si creda o meno io interpretai il mio ruolo di ministro in questo senso, per aiutare il mio paese, ben sapendo che mi chiedevano di attuare riforme non gradite all’opinione pubblica. Ero convinta che tutto questo sarebbe stato spiegato ai cittadini e compreso dagli stessi. Mi fidai anche delle promesse riguardo a una coesione politica della maggioranza di allora sulle grandi questioni, annunciata nelle parole, ma che poi è venuta a mancare nei fatti, dopo il varo della legge e a fronte delle critiche feroci esplose in seguito. Ma se si vanno a vedere i giornali dell’epoca, sia italiani che esteri, si troveranno facilmente tanti articoli in cui si parlava dell’anomalia italiana delle pensioni di anzianità e della necessità di abolirle. Su questo si innestò la falsa narrazione di una riforma nata seguendo direttive europee o della Germania, se non addirittura per salvare le banche tedesche. Tutto questo ha contribuito a fare sì che la riforma non venisse condivisa dalla politica, e anzi violentemente dibattuta, né, tanto meno, dall’opinione pubblica. Per un governo tecnico e un ministro tecnico, senza partiti alle spalle con tutto il loro potere comunicazione e di intermediazione, si rivelò estremamente difficile spiegare la drammaticità della situazione e la necessità di riforme strutturali, come quella del sistema pensionistico.
Se tornasse indietro, considerando gli attacchi immotivati e sanguinosi che ha subito, si tornerebbe a sedere sulla poltrona del ministero del Lavoro? Perché non fu capito che la situazione era insostenibile e occorreva intervenire?
Il gioco del senno di poi è sempre sterile, considerando che nessuno tornerà mai a chiedermi di fare il ministro, ma se anche questo dovesse capitare, la mia risposta sarebbe un chiaro, netto, inequivocabile “no, grazie”. Se invece devo ritornare a quel 2011, con le informazioni allora disponibili, ma anche la disponibilità ad aiutare il nostro paese in un momento di gravi difficoltà, la risposta non potrebbe che essere la medesima. Quando il prof. Mario Monti fu incaricato quale Presidente del Consiglio, mi aspettavo di essere eventualmente chiamata come esperta, sapendo quanto lui apprezzasse il mio lavoro. Certo mai mi sarei aspettata la richiesta di ricoprire il ruolo di Ministro. Di fronte a una proposta di questo tipo, però, è difficile dire di no, soprattutto se tale offerta viene da una persona in cui si ripone una grande fiducia, come nel mio caso verso il senatore a vita Mario Monti. Se torniamo a quel periodo storico, noi fummo chiamati al governo perché la politica si era tirata indietro. L’alternativa al governo tecnico era andare alle elezioni in condizioni drammatiche, con lo spread a 575 punti base, senza certezze su quello che sarebbe successo e lasciando precipitare il paese in una situazione che si prospettava drammatica. Il non detto, che scoprimmo poi a nostre spese, fu che i politici plaudirono l’arrivo del governo tecnico, salvo poi tirarsi indietro un momento dopo le scelte, addebitate interamente al governo.
Le vennero addebitate colpe per il problema esodati, quando in realtà il problema era la copertura finanziaria da parte del parlamento che non trovò soluzione in due anni, come si svolse la questione?
Io capisco benissimo la sofferenza delle persone e mi sono sempre prestata al dialogo con tutti, incontrando molti ‘esodati’, anche in incontri pubblici all’università che io stessa ho organizzato per provare a “spiegare”. Ma il problema esodati è nato dai numeri, che non c’erano. Il termine stesso è difficile da definire con precisione. La legge lo fece sulla base dei numeri allora forniti dal Ministero e dalll’INPS, relativi ai soggetti che avevano fatto un accordo di uscita. Il problema era che molti di questi accordi, soprattutto quelli fatti nelle piccole e piccolissime imprese non erano conosciuti, anche perché non c’era obbligo di comunicazione (cosa che io ho poi richiesto, proprio per la trasparenza delle informazioni). Ci trovammo perciò di fronte una situazione in cui i numeri ufficiali riflettevano solo una parte della realtà. Non secondario si è rivelato il problema dell’esistenza di una corrente contraria al nostro lavoro, che fece uscire numeri grossolanamente sopravvalutati, forse per rendere complicata la vita al ministro e al governo. Venne reso pubblico un documento dell’INPS che contava un numero di esodati pari a 360.000 quando se ne sono poi riconosciuti, nei vari interventi di salvaguarda, all’incirca la metà. Posso amaramente considerare che a volte ci sono collaboratori di cui non ti puoi fidare, ma questo lo scopri sempre a posteriori e non è nemmeno giusto generalizzare, ho potuto contare anche su persone bravissime, fidate, veri servitori dello stato.
Sua è anche la legge sul mercato del lavoro che ha prodotto molti benefici.
Appena approvato il Decreto “Salva Italia”, mi misi a lavorare sulla riforma del mercato del lavoro. Su espressa richiesta del Presidente della Repubblica, scelsi di procedere tramite un Disegno di Legge e non per mezzo di un Decreto Legge. In realtà il Presidente Monti avrebbe preferito che mi fossi opposta, optando per la via più rapida, ma se sulle pensioni era urgente intervenire, sul mercato del lavoro, stante anche uno spread tornato entro limiti accettabili, era giusto scegliere la via che dava maggiore spazio al Parlamento. La legge che ne scaturì, malgrado sia stata criticata sia dai sindacati sia dalle organizzazioni imprenditoriali, assommava in sé, a mio parere, un buon equilibrio (e forse molti l’hanno compreso soltanto dopo il Jobs Act, più radicale in alcuni suoi contenuti, come il sostanziale superamento dell’art. 18, che noi avevamo modificato in modo, a mio avviso, abbastanza equilibrato). Se nel lungo periodo tutti vogliono una sostenibilità che permetta la sopravvivenza delle aziende, e quindi del lavoro, nel breve i lavoratori vogliono un salario maggiore e le imprese un profitto superiore, e quindi gli interessi sono sostanzialmente contrapposti.
Ci muovemmo in due direzioni: dinamismo e inclusività del mondo del lavoro. Sotto il primo profilo, le norme cercavano di rendere più dinamico il mercato del lavoro, rompendo le rigidità che lo caratterizzavano con la presenza di un segmento ad alta protezione contrapposto ad altri esclusi da queste protezioni, come giovani, donne, lavoratori anziani con più di 55 anni. A questi ultimi non si era mai pensato a trovare un nuovo lavoro, ma solo a tutelarli con formule che li accompagnassero verso una forma di pensionamento anticipato. Una strada molto semplice da seguire, che non impegna i politici a cercare soluzioni efficienti.
La nostra idea principale fu di fare sì che chi esce dalla scuola trovi sbocco nel mercato del lavoro entro e non oltre 6-12 mesi. Stesso discorso per chi il lavoro lo perde, dovrebbe essere in grado di rientrare nel mercato non più tardi di un anno; se viceversa queste persone sono lasciate fuori per un lungo periodo si crea solo un grave danno per loro, per l’economia e la società. L’apprendistato è stato un altro veicolo da usare proprio a questo fine.
Il secondo driver della nostra riforma fu l’inclusione: fino a quel momento si era ragionato rispetto il mercato del lavoro pensandolo come composto da una quantità fissa e determinata di persone; si riteneva che, perché uno potesse entrare, un altro doveva uscire. Questo pensiero ha influito sulla bassa occupazione femminile in Italia, ritenendo erroneamente che un maggiore impiego delle donne nel lavoro sarebbe andato a detrimento della quota maschile.
Risponde alla medesima filosofia il pensionamento anticipato, usato dalla politica per i suoi fini, ma è una teoria per nulla corretta che va capovolta dovendosi piuttosto chiedere quale debba essere l’insieme delle regole, comprendendo i centri per l’impiego, al fine di arrivare a una piena inclusione che ci consenta di combattere il record italiano di persone che non studiano e non lavorano (oggi sono 3.000.000). Questo è un mercato del lavoro dinamico, ma le istituzioni che dovrebbero realizzarlo lo fanno in maniera efficiente solo in poche zone del paese.
Al momento della riforma del lavoro, il clima politico era già avvelenato, con la destra che ci attaccava violentemente accusandoci di creare nuovi lavoratori precari, un’accusa di stampo populista oltre che priva di fondamento, perché io avevo lavorato proprio contro la precarietà. Il mio pensiero era di togliere rigidità dove ce n’era troppa trasferendola dove era invece carente come nel caso di giovani e donne.
La sua riforma è stata modificata con l’introduzione di Quota 100, che – è ufficiale – non verrà rinnovata e si tornerà alla sua legge, che malgrado tante critiche regge il peso degli anni. Lei si è dichiarata favorevole alla sparizione di Quota 100, interverrebbe sulla situazione attuale? E in che maniera?
Quota 100 è una norma transitoria voluta da Salvini a scopo elettoralistico. Ricordiamo che il segretario della Lega prometteva di cancellare la legge vigente al primo Consiglio dei Ministri, cosa poi non avvenuta, perché la Legge è ancora in vigore. Quota 100 è una norma miope, che non guarda al futuro, che non considera l’invecchiamento demografico e neppure si pone problemi di priorità dal punto di vista sociale e che va a prevalentemente a vantaggio di uomini con carriere lavorative continue. Non si tratta – o non necessariamente – di persone in stato di sofferenza, per le quali esisteva già l’APE Social e alle quali avrebbe potuto forse essere consentito l’accesso all’APE volontaria, che implica un’uscita anticipata sostenendone l’onere, attraverso indebitamento facilitato e a basso costo. Quota 100 purtroppo vincola anche il legislatore futuro che sarà difficilmente in grado di accettare l’impopolarità del brusco passaggio da quota 100 alle regole della riforma del 2011. Una sorta di trappola che sarebbe bene sin d’ora disinnescare, per evitare nuovi “scaloni” e anche per ridurne i costi in un momento di grave difficoltà per il Paese. Non dimentichiamo, poi, che quota 100 avrebbe dovuto diminuire la disoccupazione giovanile, cosa che non ha fatto, in compenso il costo complessivo (20 miliardi circa) peserà sugli anni a venire, mentre il Paese avrebbe avuto bisogno di destinare risorse ad altri impieghi (come, ad esempio, la sanità o la scuola).
Un report pubblicato da Bankitalia recentemente ha anche smentito che Quota 100 abbia raggiunto l’obiettivo di favorire l’occupazione giovanile.
Mi fa piacere che conosca questo importante lavoro di ricerca [Carta F., D’Amuri F. e von Wachter T., Workforce aging, pension reforms and firm outcomes, Temi di discussione, no. 1297, Banca d’Italia, Settembre 2020]. Si tratta di un lavoro scientifico molto solido che fa utilizzo di un’ingente mole di dati amministrativi di fonte INPS e da indagini sulle imprese della stessa BI. Un lavoro che ha richiesto 3 anni di lavoro ed è stato presentato in svariati seminari in diverse sedi accademiche del mondo. Vi si documenta la reazione delle imprese italiane allo “shock” della riforma pensionistica del 2011, che le ha costrette a trattenere manodopera anziana. Non dimentichiamo che i pensionamenti anticipati sono stati largamente usati, in passato, per la ristrutturazione di personale. Ebbene nel lavoro si dimostra che, nei tre anni dall’entrata in vigore della riforma (2012-14) per ogni 10 per cento in più di occupati anziani costretti dalla riforma al posticipo del pensionamento le imprese hanno aumentato, non ridotto, l’occupazione giovanile (under 34) e quella dell’età intermedia (fino a 54 anni), aumentando la prima del 1,8% e la seconda del 1,3%. Questo significa che le imprese non hanno agito nel senso di una sostituzione della forza lavoro, ma della complementarità, senza che ciò abbia influito su produttività e salari. È stata una risposta positiva da parte delle imprese rispetto a un vincolo introdotto dal legislatore. Una conferma dell’errore insito nella concezione del “numero fisso di posti di lavoro” quasi che il mercato del lavoro sia un autobus pieno nel quale l’ingresso è possibile solo se un altro scende. Non è così e occorre invece domandarsi quali istituzioni, regole e politiche attive e passive siano in grado di rendere il mercato del lavoro il più possibile inclusivo. Un esempio importante a livello europeo è stato la “Garanzia Giovani”, introdotta proprio per favorire l’ingresso dei giovani nel mondo del lavoro il più presto possibile al termine del ciclo di studi.
Si scrive sempre che l’Italia è uno dei paesi europei dove si va in pensione in età anagrafica più avanzata, 67 anni, contro ad esempio i 60 in Francia. Ma si sorvola sul fatto che in Italia occorrono molti meno anni di lavoro, secondo i dati Eurostat 2018 contro la media europea di 36 anni, siamo a 31,8 sopra solo la Turchia a 29 anni e 4 mesi e lontanissimi da Islanda con 46 anni e 3 mesi, Svizzera (con 42 anni e 7 mesi) e Svezia (41 anni e 9 mesi). Il sistema si fonda quindi su questi due pilastri e fermarsi a criticare solo l’età anagrafica del pensionamento è sbagliato?
Assolutamente sì, anche se il discorso è complesso. Ricordiamo che l’Italia è il paese del sommerso. Fino a quando il sistema era retributivo, cioè parametrava la pensione a una media delle ultime retribuzioni, non era poi così sconveniente per il lavoratore accettare una busta paga maggiore, in cambio della rinuncia ai contributi. In molti casi, poi, aziende sono state chiuse o sono scomparse senza avere versato i contributi. In tutti questi casi, il lavoratore – ma più spesso si tratta di una lavoratrice – può contare soltanto su un’anzianità relativamente bassa e quindi su una pensione bassa, anche se superiore a quella a cui avrebbe diritto se si considerassero solo i contributi versati. Con il contributivo, è chiaro al lavoratore che “ogni euro conta” ai fini della pensione e l’incentivo al lavoro nero scompare.
Il futuro lavorativo dei giovani si prospetta fatto di tanti periodi diversi spesso non consecutivi, quale riflesso avrà dal lato pensionistico?
Come appena detto, le pensioni contributive sono commisurate ai contributi versati e all’età di pensionamento, per cui a parità di versamenti contributivi chi esce a un’età maggiore ha diritto a una pensione più elevata. Questo tipo di calcoli è adottato anche dalle compagnie di assicurazioni per le pensioni private. Tuttavia, il nostro sistema è pubblico e ciò vuol dire che vi è un dovere dello stato di adottare misure di solidarietà verso i meno fortunati. Come raggiungere quest’obiettivo? Anzitutto, richiamiamo le politiche attive per (re) inserire le persone nel mercato del lavoro, con formazione e agenzie dedicate. Se, nonostante tutto, la persona non trova lavoro, lo Stato dovrebbe intervenire versando i contributi tramite risorse pubbliche, ossia con il ricorso alla tassazione generale che, ricordiamo, è progressiva, visto che, per fortuna, abbiamo evitato la sciagura della flat tax (almeno in versione leghista). E’ la differenza tra assistenza e previdenza: una deviazione dalla regola generale a vantaggio dei meno fortunati finanziata con il ricorso alla fiscalità generale e non ai contributi (che sono proporzionali). Non un’eccezione per finanziare un privilegio, come purtroppo è capitato spesso in passato.
Il rapporto ideale tra pensionati e lavoratori attivi dovrebbe essere 3 o 2 a 1 per garantire l’equilibrio del sistema, pochi mesi fa il numero di pensionati in Italia ha superato quello dei lavoratori attivi. Aggiungendo questo alle proiezioni sulla popolazione che nel 2050 vedono 47 milioni di cittadini contro gli attuali 60, malgrado l’immigrazione attuale, esiste un rischio sostenibilità? Per non dimenticare il progressivo invecchiamento della popolazione, secondo Il Sole 24 Ore nel 2039 gli over 64 supereranno gli under 35.
Questo è il punto focale di un sistema pensionistico a ripartizione che si fonda su un patto tra generazioni in cui i lavoratori attivi coprono le pensioni di quelli che sono già andati in quiescenza. Noi abbiamo un grande problema demografico e per avere sostenibilità con una demografia sfavorevole è purtroppo necessario che le persone lavorino di più. L’invecchiamento è un movimento carsico che mina alla base la sostenibilità. Per ripristinarla occorrono politiche per la famiglia, politiche per l’occupazione, politiche per la crescita. Certo non controriforme che anticipano il pensionamento. In caso contrario si va verso pensioni di importo sempre minore inducendo i giovani a lasciare il paese, come già sta avvenendo.
Quali modifiche introdurrebbe dal 2021?
Mettiamo da parte misure come Quota 100 e riprendiamo il percorso della riforma, rafforzando piuttosto l’APE Social e l’APE Volontaria. Soprattutto recuperiamo l’equilibrio nei rapporti tra generazioni ridando fiducia e prospettive ai giovani, senza l’apporto dei quali nessun sistema previdenziale è sostenibile.
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