Giochi Olimpici: numeri e non solo sport
Con un anno di ritardo sulla tabella di marcia, sperando che non vi siano altri impedimenti, si terranno a fine luglio le Olimpiadi a Tokyo. Saranno i giochi della XXXII edizione, i soli ad essere stati posticipati e non annullati come accadde per quelli del 1916, che avrebbero dovuto tenersi a Berlino e quelli del 1940 e del 1944 destinati rispettivamente proprio a Tokio, che li riebbe nel 1964, e a Londra dove si tennero comunque nel 1948.
Solo due guerre mondiali hanno impedito lo svolgimento di quella che è la più importante e seguita manifestazione al mondo che coinvolge non solo atleti di ogni nazione ma che è talvolta purtroppo foriera di significati che vanno ben oltre lo sport; talvolta purtroppo in direzione negativa. Andando a vedere le nazioni a cui vennero assegnati i giochi nel secondo dopoguerra troviamo due nazioni che avevano subito devastanti effetti economici del secondo conflitto mondiale; in tal senso la possibilità di usare i giochi anche come strumento di rilancio economico è un fattore da tenere in considerazione. Dopo è sempre emerso un importante risvolto politico o sociale. Città del Messico 1968, con i velocisti americani che lanciavano il loro messaggio alzando il pugno; Monaco 1972 che videro la strage degli atleti israeliani; Mosca 1980 per il grande boicottaggio a seguito dell’invasione dell’Afghanistan da parte dell’URSS fino a Pechino 2008, con le proteste a causa del mancato rispetto da parte della Cina dei diritti umani. Sembra che negli ultimi cinquant’anni vi sia sempre stato un fattore non attinente allo sport che ha caratterizzato i giochi. Ma i risultati sul campo, alla fine, sono sempre stati quelli che hanno trovato maggiore spazio sulle cronache e contribuito a creare nuovi eroi che, pur essendo ben oltre le intenzioni del Barone de Coubertin, che ad Atene 18 96, decise per l’esclusione dei professionisti dai giochi. Anche le donne non poterono gareggiare.
Chi partecipò quindi alla prima edizione? Sembra che anche alcuni turisti gareggiarono e, nel caso della delegazione inglese, scesero in campo i rappresentanti diplomatici della delegazione di Sua Maestà britannica, all’epoca ancora la Regina Vittoria. Per l’Italia cercò di partecipare il maratoneta Carlo Airoldi, ma la sua richiesta di iscrizione venne respinta per l’accusa di professionismo.
Oggi i tempi sono notevolmente cambiati e, al di là del professionismo che nello sport è un dato innegabile, così come gli interessi economici che ruotano intorno all’evento, sono altri i numeri che meritano una particolare considerazione e inducono ad una riflessione su come il mondo sia più piccolo e più collegato indipendentemente da internet oltre alla possibilità che viene data a tutti di poter praticare uno sport. Chiediamoci infatti quante persone potessero essere a conoscenza nel 1986 della prima edizione dei giochi; quanti avessero accesso alla stampa o sapessero leggere. Lettura e sport, specialmente il secondo, non erano attività per tutti, ma da privilegiati. Ed ad Atene scesero in campo quattordici nazioni e 285 atleti, tutti uomini. Nel 1916, ad Anversa, il numero delle nazioni era raddoppiato e gli atleti superavano i 2.400 di cui 48 donne; Roma 1960 fu la prima edizione in mondovisione ed 83 nazioni furono rappresentate da oltre 5.000 concorrenti. Tra i nomi delle Olimpiadi che difficilmente ricordiamo si trova quello di Yoshinori Sakai, l’ultimo tedoforo modo di vivere sempre di Tokyo 1964 scelto per essere nato nel pressi di Hiroshima il giorno in cui venne sganciato il primo ordigno atomico della storia.
Quest’anno ancora a Tokyo, saranno presenti 207 nazioni e questo numero è significativo non solo dell’universalità dello sport che è oggi movimento di massa, forse l’unico che offre una possibilità a molti di uscire da un modo di vivere sempre più casalingo, sedentario e legato ad internet. Ma il numero 2017 è da considerare anche come quello di Stati cha sono non solo centri di riferimento commerciale, politico sociale, ma anche protagonisti vivi del momento storico, connessi tra loro e che dialogano non solo a livello economico. In tal senso la pandemia dovrebbe avere insegnato che non solo i grandi eventi, ma anche le grandi battaglie, non possono essere combattute da soli e che localismi e particolarismi sono sempre più deleteri.
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