Il secondo impeachment
I deputati democratici non hanno perso tempo nel presentare alla Camera USA l’articolo per il nuovo impeachment del Presidente Trump, questa volta basato sull’incitazione a sovvertire con la violenza l’ordine costituzionale. È la prima volta nella storia che un presidente americano è sottoposto per due volte al giudizio politico, ma questa volta – a differenza del primo caso, in cui Trump era accusato di aver fatto pressioni sul Governo ucraino perché indagasse sul figlio di Biden – l’accusa è solida, dimostrabile e condivisa da una parte maggioritaria (il 56%) dell’opinione pubblica, rivoltata dall’assalto al Campidoglio del 6 gennaio. Passerà dunque alla Camera, anche con il voto di qualche repubblicano, poi andrà al Senato, dove i Democratici hanno la maggioranza (50+1) solo con il voto di spareggio della Vicepresidente Kamala Harris, ma non hanno i due terzi necessari per condannare Trump.
Ad ogni modo, il Senato esaminerà l’accusa ormai solo quando Trump avrà lasciato la Casa Bianca e qualche esponente democratico dice che il dibattito sarà rimandato a dopo che Biden avrà ottenuto l’assenso per le sue nomine nell’Amministrazione e presentato i primi progetti di legge significativi. Allora, c’è da chiedersi, a che serve l’impeachment? Il suo valore è e resta politico, non pratico, nella misura in cui in Senato una maggioranza a favore della condanna ci sarà comunque, se i due o tre senatori repubblicani a favore manterranno la loro posizione. Ma vale la pena perseguire un Presidente disfatto? Su questo la discussione negli USA – e tra gli stessi liberali – è aperta: una parte, minoritaria, sostiene che a questo punto è meglio lasciar cadere Trump nell’isolamento e nell’esilio e non permettergli di fare la vittima agli occhi dei suoi fanatici sostenitori. La maggioranza, però (e anche alcuni esponenti repubblicani) chiede invece che Trump paghi per le sue innumerevoli malefatte (farne la lista completa è quasi impossibile), in sede politica e in sede penale, anche con l’interdizione ad occupare funzioni pubbliche in avvenire.
Personalmente, credo che abbiano ragione: la tendenza a dimenticare, per favorire una improbabile riconciliazione degli animi, è certo comprensibile e diffusa, ma la mancanza di una sanzione vera e dura non può che incoraggiare il ritorno, prima o poi, alle aberrazioni del passato. Fanno perciò bene gli Ebrei a tener vivo il ricordo dell’Olocausto e fanno bene tutti gli amanti della libertà e della verità nel mondo a impedire che siano cancellati o negati i crimini del nazismo. Argomentare che un preteso diritto alla libertà di pensiero e di parola dovrebbe permettere anche alle opinioni più estreme e distruttive di manifestarsi è un funesto errore.
Quelli che ritengono che l’oscuramento imposto da Facebook e Twitter a Trump violi questa libertà, errano completamente: la libertà di pensiero e di espressione è sacrosanta e va difesa, ma deve trovare limiti, non solo nella diffamazione (questo è un principio accettato dalle Corti di Giustizia), ma nel rispetto dei principi che tale libertà garantiscono: dare l’assalto a questi principi, e fisicamente agli edifici che li rappresentano, costituisce un attentato alla vera libertà e alla vera democrazia. Lo so che il confine è sottile, e che, manipolata da regimi e persone senza scrupoli, questa esigenza può sconfinare nella repressione e nell’abuso, ma non dovrebbe essere troppo difficile distinguere tra legittima lotta a un determinato credo politico o regime, condotta nel rispetto della verità e del processo democratico, e la sistematica violazione dei principi impersonali che reggono la vita delle Nazioni libere: equilibrio dei poteri, santità del processo elettorale democratico, rifiuto del profitto personale nella gestione della cosa pubblica, rifiuto della violenza come mezzo per affermare le proprie vedute.
Di tutte queste violazioni Donald Trump si è reso anche troppo colpevole durante il suo mandato, dalla sua visione monocratica e assolutistica dei poteri presidenziali, all’uso spregiudicato della sua posizione per favorire i propri affari personali, dal nessun rispetto per il potere legislativo al tentativo di asservire l’apparato della Giustizia ai suoi fini personali e politici, dall’uso sistematico della menzogna più spudorata al finale, disperato ricorso alla violenza per negare una sconfitta elettorale. È abbastanza triste notare che è solo a partire da quest’ultimo, ignobile atto sovvertitore, che una parte consistente dei parlamentari repubblicani, che avevano per anni fatto da coro alle spudoratezze di Trump, e dei giornalisti che si erano fatti eco compiacente di tutte le sue bugie, paiono essersi accorti di chi e di che si trattava e si strappano le vesti. Meglio tardi che mai, si dovrebbe dire, ma meglio sembra osservare: “troppo comodo”. La barca di Trump che ora sta affondando, è quotidianamente abbandonata da sempre più topi, come era prevedibile, perché, al di là dell’indignazione vera o finta, è l’istinto di sopravvivenza a far premio.
Ma durerà questa ondata di perbenismo? Intanto vedremo che succederà il 20 gennaio, giorno dell’inaugurazione del nuovo Presidente. I timori che una classica cerimonia della democrazia sia turbata da altri disordini esiste, naturalmente, e le Autorità prenderanno certamente tutte le precauzioni possibili. Ma importante sarà seguire il comportamento degli scherani manifesti di Trump (da Giuliani a Ted Cruz) a quelli nascosti, più numerosi.
Ma al di là del 20 gennaio, si pongono ovviamente due questioni. La prima è legata alla sorte personale di Donald Trump: ci saranno per lui le conseguenze legali dei suoi atti eversivi? Ci saranno conseguenze patrimoniali per le sue tante nefandezze finanziarie, a cominciare dalle sue frodi fiscali? Come ho notato prima, è sbagliato chiedere, in nome di un preteso buonismo, che tutto cada nell’oblio; la regola che chi commette un crimine deve pagare, indipendentemente dalla sua posizione, è la base stessa della Giustizia. Non perseguire mai i colpevoli in nome di considerazioni politiche anche apparentemente ragionevoli è solo un invito a ripetere gli stessi crimini.
La seguente questione è come evitare che un fenomeno come quello di Trump (che ha pochi precedenti nella storia americana, almeno da Nixon in poi – ma Nixon pagò, con le dimissioni anticipate e la “damnatio memoriae” politica) possa ripetersi.
I Democratici hanno una risposta che mi sembra adeguata: sin dallo scorso settembre hanno presentato un complesso progetto di legge intitolato “Legge per la protezione della nostra Democrazia”, che comprende una serie di norme, volte tra l’altro a limitare gli strapoteri presidenziali, a ristabilire l’equilibrio dei poteri, a rendere obbligatoria la pubblicazione delle dichiarazioni fiscali di ogni candidato alla Casa Bianca per i dieci anni precedenti, a impedire l’apporto di interessi stranieri alle finanze presidenziali, della sua famiglia e delle sue campagne, a rafforzare e proteggere il ruolo degli Ispettori Generali creati nel 1978 dopo il Watergate.
Al di là della punizione, necessaria, di Donald Trump, è augurabile che questa legislazione passi rapidamente e, come accadde dopo il Watergate, con un forte consenso bipartisan. Altrimenti, la grande democrazia americana resterà inguaribilmente malata.
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