Una settimana chiave

La settimana che viene sarà chiave per varie ragioni. Negli Stati Uniti, mercoledì 20, se non ci sono altri imprevisti, Trump lascerà finalmente Washington e la Casa Bianca, e Joe Biden e Kamala Harris giureranno come Presidente e Vicepresidente. Si chiuderà così un periodo sciagurato, nel quale Trump, con la complicità di tanti, troppi, repubblicani, ha calpestato tutte le regole di una democrazia occidentale, piegato le istituzioni a vantaggio proprio, politico o affaristico, corteggiato dittatori e messo in serio pericolo le tradizionali alleanze, a cominciare dalla NATO. Periodo culminato nello sconcio dell’assalto del 6 gennaio al Congresso, che finalmente ha rivelato al mondo il vero volto di un aspirante tiranno paranoico.

Che succederà ora di lui? Il secondo impeachment, anche se votato alla Camera da 10 deputati repubblicani, sarà probabilmente respinto al Senato, perché non bastano i 4 o 5 senatori repubblicani che hanno anticipato di essere a favore. Sarà una vittoria politica per i Democratici se una maggioranza di senatori, anche se inferiore ai richiesti 2/3, voterà a favore, ma non basta. Legalmente, niente può impedire a Trump di ripresentarsi nel 2024, ammenoché non intervenga la Giustizia penale a chiudergli la strada. Certo, nel Partito Repubblicano non mancano gli aspiranti alla successione (che da una parte devono fingere di restare al lato del Presidente sconfitto per non alienarsi alla sua base di destra e dall’altra devono sperare che Trump sia tolto di mezzo): l’ignobile demagogo Ted Cruz, dimentico di tutto quello che di Trump diceva nel 2016, l’incredibile Josh Hawley (“la colpa è di Pelagio”) e a quanto pare il più deleterio e sicofantico di tutti, il Segretario di Stato Mike Pompeo, il quale sta approfittando degli ultimi giorni di incarico per prendere decisioni che – giuste o sbagliate – sono estremamente scorrette, e degno del più oscuro trumpismo che siano prese da un’Amministrazione agli sgoccioli: mettere Cuba e un oscuro movimento yemenita nella lista degli Stati terroristi. Aggravare le sanzioni all’Iran e così via: decisioni che servono solo a mettere micce sul cammino del futuro Presidente e del suo Ministro degli Esteri, Ailken. Nel frattempo, sullo stile del suo capo, diffonde twit su twit magnificando i successi della politica estera del quadrienno, per lo più inesistenti, se si pensa – solo per fare alcuni esempi – che la Corea del Nord annuncia di aver sviluppato armi nuove e potentissime, la Russia e l’Iran controllano il Medio Oriente, la Cina è economicamente e militarmente più forte di prima e Maduro è saldamente in sella a Caracas.

Però, intanto, tutta l’attenzione è concentrata sul fatidico 20 gennaio: i timori di disordini a Washington e altrove non sono solo una fantasia, poiché emergono da tutti i rapporti dell’FBI e delle altre agenzie di intelligence. Trump ha ipocritamente finto di scoraggiarli, denunciando la violenza e chiedendo calma, ma troppo tardi per estinguere il falò che egli stesso aveva acceso. Ciò ha costretto le Autorità a blindare letteralmente la Capitale, con ventimila membri della Guardia Nazionale, l’intera Polizia di Washington, migliaia di agenti dell’FBI e del Servizio Segreto, trasformando per forza di cose una tradizionale cerimonia della Democrazia in un atto di guerra, con le istituzioni in stato di assedio.

Gli amici dell’America, consapevoli delle ripercussioni che il fato della maggiore democrazia può avere su tutte le altre, guarderanno dunque con il fiato sospeso a quello che succederà mercoledì. Ma se anche tutto andasse ragionevolmente bene, Joe Biden sarebbe appena all’inizio delle sue pene. Eredita una pandemia mortale e mal gestita, un’economia in crisi, un Paese diviso e una politica estera da ricostruire da capo a fondo. Non potrà riuscire a porvi rimedio senza l’aiuto di almeno un manipolo di Repubblicani, ma sapranno questi mettere l’interesse del Paese al di sopra dei calcoli politici e di partito?

E per parlare di interesse del Paese, la settimana potrebbe essere decisiva anche per vedere come finisce la crisi in Italia. I segnali si incrociano in tutte le direzioni, i renziani hanno aperto la crisi ma dicono di essere pronti a trattare, Conte dichiara disponibilità ma sceglie la sfida in Parlamento, rispuntano Mastella e peggio. La destra reclama elezioni ma 5Stelle e PD le rifiutano indignati anche se dicono di non averne paura. Naturalmente, bisogna vedere cosa dirà il Premier alle Camere e come andrà – se ci sarà – il dibattito. Da un sondaggio dell’IPSOS risulta che il 73% degli Italiani non capisce la crisi, ritiene che non sia il momento di aprirla e che Renzi agisca nel suo proprio interesse. Ma basterà questo chiaro verdetto dell’opinione pubblica a far rinsavire una classe politica in gran parte inaffidabile?

Nel frattempo, basta dare un rapido sguardo alla stampa europea per rendersi conto dello sconcerto, tra ironia e disprezzo, che le nostre eterne beghe provocano tra amici e alleati.

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