La solitudine in Rete

La comunicazione nel mondo digitale, prima riservata alle sole mail, è cambiata con l’avvento di Internet 2.0, o web dinamico, ed è stato uno dei passi più importanti della rivoluzione digitale in quanto ha cambiato il modo di comunicare dell’intera umanità: da quando gli utenti della rete possono interagire con un sito e, tramite questo, con altre persone a loro volta connesse, siamo entrati in un’altra epoca. La fase successiva che ci ha permesso di andare oltre è rappresentato dall’avvento dei social: scrivere su queste piattaforme e oggi addirittura usare i sistemi di messaggistica è divenuto una forma decisamente normale di comunicare che ha avuto ripercussioni ad ogni livello. Un esempio su tutti che la dice lunga su come questi strumenti siano ormai il quotidiano accettato, è il fatto che la giurisprudenza ha ritenuto valido un licenziamento intimato su WhatsApp.

Ma come si colloca realmente, questo modo di comunicare nei rapporti umani? Tolte quelle che, comunque, restano reali conversazioni, come possono essere considerati molti, moltissimi, dei messaggi lanciati sui social e su altri siti dove è l’immagine a sostituire la parola? Che cosa realmente vuol dire il fruitore di social quando mette in rete un pensiero, un video, una fotografia?

La maggior parte dei messaggi, nelle intenzioni degli autori, sono in realtà monologhi, destinati ad un pubblico che dovrebbe prendere atto ed approvare: quante volte leggiamo messaggi che terminano con le parole “no critiche, grazie”? Più volte sono invece si riducono a semplici soliloqui lanciati in rete senza neppure sapere se vi sarà qualcuno disposto a recepirli. Importante è diffondere un pensiero.

Sia consentita una premessa: il monologo è una scena drammatica, già presente nel teatro greco, dove l’attore parla da solo, e viene usato come espediente tecnico per far entrare gli spettatori nello spirito, se non nel pensiero, del personaggio. Fuori dall’ambito teatrale possiamo definirlo come un discorso che una persona rivolge a sé stessa o ad altri e non vuole risposte o, appunto, critiche. Il monologo è comunque destinato a qualcuno e, in tal senso, differisce dal soliloquio, che è il parlare solo a sé stessi sapendo che non vi è interlocutore.

Per amore della precisione, quindi, il più famoso monologo recitato su un palcoscenico è, in realtà, un soliloquio. Amleto, che pur rivolgendosi verso il pubblico, consapevole di essere un attore, in realtà può porre la domanda del suo dilemma solo a sé stesso e non si aspetta, ne può avere, un feedback perché solo il suo più intimo io può rispondere alla domanda se sia meglio togliersi la vita o resistere e soffrire per la paura di trovare qualcosa di peggiore dopo. Amleto era solo e questa solitudine la vediamo oggi proprio sulla rete.

Chi lancia un messaggio lo fa da solo, interagendo con il suo computer, sullo smartphone o il tablet, strumenti ultimo modello che hanno sostituito l’incontro, la stretta di mano, il parlarsi in faccia. Questa nuova possibilità di comunicare ha creato una generazione votata al monologo e al soliloquio che lo fa senza l’animo travagliato e martoriato del Principe di Danimarca, o su argomenti importanti, ma per qualsivoglia motivo, ad ogni occasione. E viene da chiedersi se gli utenti social siano consapevoli che il loro messaggi, i video o le immagini saranno raccolti da altri navigatori che, come loro da soli, si troveranno anch’essi con uno schermo e una tastiera in attesa di qualcosa che attragga la loro attenzione.

Precisiamo. Non stiamo qui parlando dei messaggi pubblicitari o dell’informazione vera e propria, che impongono una struttura e un’attività finalizzata a raggiungere un pubblico che, specialmente nel caso della seconda, cerca una determinata notizia o un argomento. Stiamo parlando di oltre due miliardi di utenti che hanno scelto di comunicare e interagire dai loro terminali che possono essere utilizzati anche come strumento per superare la timidezza ma che, in realtà, sono per i più il mezzo per potersi far sentire e parlare di tutto e di tutti. E’ la moderna comunicazione della massa, limitiamoci a prenderne atto.

Ma se Amleto esordisce chiedendosi se fosse preferibile l’essere o il non essere, i monologhi e i soliloqui in rete spesso iniziano con frasi che, allo stesso modo, sono foriere di dubbi quali “Io non sono geologo, avvocato, medico, virologo però…” In questi casi i dubbi non sono quelli di chi scrive, bensì quelli che sorgono a chi dovrebbe essere il destinatario di quelle che l’autore ritiene siano addirittura perle di saggezza.

Come fece notare Umberto Eco, i social hanno sdoganato il diritto di parola a legioni di imbecilli che adesso hanno la possibilità di esprimere le loro opinioni su tutto e non mancano di farlo approfittando dello strumento telematico e cercando quell’approvazione che nella vita reale chissà se avrebbero salvo in ristrette cerchie di persone disposte ad ascoltarli a livello locale. Oggi chi vuole anche solo far sapere che si sente triste può lanciare il suo messaggio e avere risposte dall’Australia o da un eschimese.

Conclusione? Nella tragedia di Shakespeare Amleto recita il suo monologo – soliloquio senza niente in mano anche se l’iconografia lo raffigura rivolto al teschio di Yorick; ma quella è un’altra scena. Possiamo augurarci che anche coloro che lanciano in internet le loro elucubrazioni tengano le mani libere e tornino a confrontarsi con persone reali abbandonando le tastiere.

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