Diplomazia in stallo
Riprendo il titolo da una frase del “New York Times” sullo stato attuale del conflitto tra Israele e Hamas. Da quando il conflitto è iniziato, sono morti almeno 200 palestinesi e 14 israeliani, senza contare le distruzioni provocate dai bombardamenti di edifici civili a Ghaza, comprese scuole e ospedali. Hamas dichiara di aver tirato 1400 miissili sul territorio israeliano, la maggior parte intercettati dal sistema antimissili Iron Dome, ma alcuni andati a segno, ma la guerra (perché di vera guerra si tratta) non accenna a finire. Anzi.
In tutto questo, la diplomazia internazionale, e soprattutto americana (degli europei è meglio tacere), appare in completo stallo. Biden ha fatto sapere di aver parlato della crisi con Netanyahu, ma penso che le sue opzioni siano limitate, almeno finché Washington non assume verso Netanyahu un atteggiamento drastico, che peraltro è estremamente improbabile, per almeno due ragioni. La prima è di carattere interno; sulla questione, il Partito Democratico è diviso, e solo una frangia di sinistra appoggia la causa palestinese; quanto ai Repubblicani, perlomeno quelli, ancora in maggioranza, di obbedienza trumpiana, tutto è a favore, non solo di Israele, ma della destra israeliana.
La seconda ragione non è certo meno importante: in un conflitto tra palestinesi e israeliani si può cercare di essere in qualche modo equidistanti, ma quando dall’altra parte c’è Hamas, un’organizzazione terroristica, riconosciuta come tale da Stati Uniti, Europa e ONU, si può essere portati a capire, e in fondo anche ad augurarsi, che Israele riesca a distruggerla o almeno a indebolirla seriamente, come è evidentemente l’obiettivo del Governo di Tel Aviv (e spiega la tiepidezza di alcuni paesi arabi, come l’Egitto, che per parte sua mantiene da anni un blocco di Ghaza, a condannare Israele).
Il precedente conflitto, risalente al 2014, tardò quasi tre mesi per concludersi, con un accordo che Hamas non ha rispettato. Questa volta è da pensare che Israele andrà avanti fino in fondo, anche pagandone il costo in termini di immagine internazionale, se la diplomazia continuerà a restare, come ora, in stallo. C’è solo da augurarsi che il conflitto non si estenda a tutta la regione, tirando dentro l’Iran e i maggiori paesi arabi della zona, che da una parte sonio obbligati a sostenere i fratelli palestinesi, ma dall’altra temono soprattutto l’Iran e i suoi bracci armati nel Medio Oriente, come Hamas e Hezbollah.
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