Appunti per un’Orestiade africana (Film, 1969)
Fare un film sulle trasformazioni in atto nell’Africa contemporanea è un’idea che passa per la mente di Pier Paolo Pasolini fin dal 1963, al punto di spingerlo a scrivere la sceneggiatura (mai realizzata) de Il padre selvaggio, ambientato in una tribù africana, con protagonista un figlio che vive dentro sé il conflitto tra tradizione e cambiamento. Il ragazzo è nato e vissuto in una tribù della foresta, tra riti tribali e usanze antiche, ma a contatto con il suo insegnante di scuola scopre le novità razionali di un mondo che cambia. Pasolini realizza un taccuino di appunti per immagini, la seconda parte del progettato Poema sul Terzo Mondo, iniziato con Appunti per un film sull’India (1967-68), quello che diventa Appunti per un’Orestiade africana.
L’idea del regista è poetica e politica al tempo stesso: cercare volti e luoghi per ambientare la tragedia di Eschilo in Africa, mantenendo la stessa storia per dimostrare la tesi del cambiamento africano, ma nel solco della tradizione. Il discorso è simile al tema affrontato nella tragedia in versi Pilade, dove il protagonista usa la tradizione in senso rivoluzionario per recuperare il sacro e l’irrazionale, con l’aiuto delle Erinni (oscure divinità demoniache), contro la ragione democratica di Oreste.
Appunti per un’Orestiade africana, pervaso da identico fervore, analizza il passaggio traumatico da un mondo antico, selvaggio e naturale, a una nuova democrazia formale, di taglio europeo. La tragedia di Eschilo diventa pietra di paragone tra la Grecia classica e l’Africa contemporanea, soprattutto nel finale, quando le Erinni (dee del momento animale nell’uomo) si trasformano in Eumenidi e danno vita alla prima forma di giustizia, al Tribunale. Oreste è tornato in patria, ha ucciso l’usurpatore Egisto e la madre fedifraga Clitennestra (che aveva assassinato il marito Agamennone al ritorno dalla guerra di Troia), adesso è perseguitato dalle Erinni e sta scappando dalla loro furia, ma l’intervento di Atena porta alla nascita della democrazia, di un giudizio libero sui fatti, da parte di un tribunale, quindi alla salvezza di Oreste. La democrazia sconfigge la tradizione ancestrale. L’idea di Pasolini è quella di scrivere un Oreste africano, portatore di ideali nuovi; sarebbe l’africano che è tornato in patria dopo aver studiato all’estero e che si è fatto portatore di ideali nuovi per promuovere il cambiamento della società, in una parola la rivoluzione. Pasolini racconta la tragedia di Oreste che promette di far diventare il villaggio rurale di Agamennone come Atene – una culla della democrazia – salvato da Atena (la giustizia) e dalle Erinni trasformate in Eumenidi dalla condanna dopo aver ucciso la madre, a patto che favorisca il cambiamento. La vicenda di Oreste funge da metafora per descrivere il cambiamento dell’Africa contemporanea.
Un film girato con la macchina a mano (Arriflex a spalla), in 16 mm. in bianco e nero, tra Tanzania, Uganda e Tanganika, per far risaltare il contrasto tra civiltà tribale e arcaica con le varie contaminazioni socialiste (soprattutto cinesi) e consumistiche nordamericane. La macchina da presa si sofferma sui volti felici degli africani – più ingenui coloro che vivono nei villaggi, smaliziati i cittadini – perlustra mercati, grandi laghi, savane, foreste, negozi, costruzioni in muratura, povere casupole di paglia e fango. Non è uno spirito da mondo movie stile Jacopetti quello che spinge Pasolini ai suoi appunti fotografici, niente è più lontano da lui che immortalare immagini sensazionaliste (pure se inserisce una fucilazione di repertorio); il suo intento è dimostrare il cambiamento e mettere una nota polemica sulla necessità che certi costumi si modifichino. In definitiva Pasolini riporta in Africa l’antico conflitto che vive sulla sua pelle: la scomparsa della civiltà contadina e operaia in Italia, paragonandolo alla fine della società tribale africana in funzione della modernità. La conclusione è che la tradizione resta nei costumi dei popoli ma con un ruolo diverso, come dimostra un matrimonio celebrato secondo l’antico rito ma festeggiato secondo le mode europee.
Pasolini non risparmia l’analisi delle guerre tribali, le contraddizioni culturali, le tradizioni religiose, le credenze antiche, lanciando anche uno sguardo antropologico sulla situazione. Ma è il poeta che prende il sopravvento, trasfigurando la realtà, per andare a scovare nei volti, negli oggetti,m nelle danze, nelle forze naturali, gli elementi che servono per dare vita alla sua idea di tragedia africana. Ed è così che gli enormi alberi della savana sconvolti dal vento diventano le Erinni infuriate, la guerra civile in Biafra diventa la guerra di Troia, la fucilazione di un ribella ricorda l’uccisione di Agamennone, una danza rituale raffigura la trasformazione delle Erinni in Eumenidi. Pasolini aveva cominciato il film riprendendo se stesso in una vetrina di una libreria di Kampala, quello continua a fare quando riprende il mondo che osserva con i suoi occhi. A un certo punto Pasolini inserisce anche il jazz per far parlare Eschilo nella sua lingua originale – forse la parte più complessa del film – tramite il canto di due neri d’America come Archie Savage e Ivonne Murray, insieme al gruppo di Gato Barbieri. Simbolica la ricostruzione che avviene in studio, a Roma, dove il blues dei neri d’America si fa canto liberatore del ritorno in patria, in un mondo cambiato, occidentalizzato. Una breve parte di fiction la troviamo recitata da attori locali presi dal popolo: l’incontro tra Elettra e Oreste sulla tomba del padre Agamennone, il reciproco riconoscimento di un desiderio di vendetta. Pasolini rappresenta la voglia di rivalsa dell’Africa razionalizzata (Oreste) sull’Africa tribale (Agamennone), usurpata e tradita dal mondo occidentale. Interessante è anche l’analisi che fanno gli studenti africani che studiano all’Università di Roma, molto spesso non comprendono a fondo l’analisi e restano esterrefatti di fronte a un Oreste africano e al suo desiderio di vendetta che Pasolini si sforza di far capire. Resta tutto sospeso perché i problemi non si risolvono, si vivono, il futuro di un popolo sta nella sua ansia di futuro e per costruire il futuro serve grande pazienza.
Si tratta di appunti per un film a progetto, che vuol dimostrare una tesi, non un documentario né un film, soltanto una tragedia greca girata in Africa, in una nazione socialista filocinese, tentata dalle suggestioni di America e neocapitalismo. La voce fuori campo è di Pasolini, la colonna sonora jazz di Gato Barbieri, spesso il poeta recita parti della tragedia di Eschilo, racconta la morte di Agamennone per mano di Clitennestra, narra il ritorno di Oreste e la sua vendetta, la furia delle Erinni, l’aiuto di Atena, il tribunale che le trasforma in Eumenidi, quindi l’assoluzione del figlio dal turpe crimine.
Tutto girato in Tanzania e Uganda alla ricerca di volti, luoghi e situazioni per un film che non verrà mai fatto ma che resterà allo stato di documentario, come un taccuino su pellicola di cose da fare. Un film popolare, era il sogno di Pasolini, con grande importanza al coro – tipico delle tragedie greche – con personaggi presi dalla strada, sarti e barbieri, giovanotti teppisti, bambini curiosi, tutto ambientato in luoghi reali, tra le rive di un lago, le fabbriche, le scuole, i mercati affollati e la savana furibonda. Secondo Pasolini la civiltà africana ricorda la civiltà greca antica, la scoperta della democrazia e la sconfitta della parte tribale (le furie), che resta solo nella cultura del popolo. Il grande protagonista del film dovrebbe essere il popolo africano, perché il futuro è nelle sue mani, mentre Pasolini non ha parole per commentare l’orrore della guerra civile, lascia in sospeso come andrà a finire, perché se Oreste (la razionalità) viene assolto dal turpe delitto e il vecchio mondo antico è sconfitto dalla modernità, il mondo occidentalizzato è tutto da costruire, perché il neocapitalismo africano è intriso di mille contraddizioni. L’Africa si trasforma in una sintesi di antico e nuovo, come le Erinni si sono trasformate in Eumenidi, in definitiva è l’irrazionale che accetta di convivere con il razionale, il mondo magico resta come tradizione. Il futuro, come sempre secondo Pasolini, è nelle mani del popolo, rappresentato da un contadino africano che zappa sotto il sole.
Appunti per un’Orestiade africana viene realizzato per la RaiTv, sotto l’egida di Angelo Romanò, amico dei tempi di Officina, diventato direttore ai programmi di una rete televisiva. Alberto Moravia, dopo aver visto il film si chiese perché Pasolini avesse abbandonato il realismo dei suoi primi film e dei suoi romanzi. La sua risposta fu che il poeta aveva voluto evitare le interpretazioni obbligate, forgiate per la necessità pratica dell’azione politica, spostandosi su un livello più ambiguo. In definitiva, la mediazione culturale si fa necessità poetica, nella sua ispirazione la realtà perde spessore, resta solo la cultura.
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Appunti per un’Orestiade africana – Regia, Soggetto, Fotografia, Commento: Pier Paolo Pasoli. Musiche: Gato Barbieri. Montaggio: Cleofe Conversi. Produzione: Gian Vittorio Baldi, IDI Cinematografica (roma), I Film dell’Orso. Produttore Delegato: Gian Vittorio Baldi. Pellicola: Eastmancolor. Formato: 16 mm. b/n. Macchine da Presa: Arriflex BL. Sviluppo e Stampa: Luciano Vittori. Sincronizzazione: NIS Film. Distribuzione: DAE. Riprese: dicembre 1968 e febbraio 1969. Esterni: Uganda, Tanzania, Lago Tanganika. Interni: Roma, Il Folkstudio. Durata: 63’ (2006 m.). Prima Proiezione Pubblica: Giornate del cinema italiano, Venezia, 1 settembre 1973.
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[NdR – L’autore dell’articolo ha un suo blog “La Cineteca di Caino”]