Un forte bisogno di vera politica

Nel giugno 1946, alle prime elezioni dopo il ventennio fascista, si recò alle urne quasi il novanta percento degli italiani; questo numero addirittura aumentò nel 1948 quando il 92,19 percento degli aventi diritto espresse il voto che portò la Democrazia Cristiana al governo e, nei fatti, determinò la politica del nostro Paese per quasi mezzo secolo.

Erano momenti diversi rispetto ad oggi; nel 1946 per la prima volta votavano anche le donne e, sicuramente, l’Italia che usciva dalla Seconda Guerra Mondiale, sentiva il bisogno di manifestare la libertà riconquistata. Nel 1948, dopo una campagna elettorale tra i due fronti che erano consapevoli che, in caso di vittoria, avrebbero pesantemente influenzato la politica italiana, gli elettori  risposero in maniera massiccia, anche loro coscienti dell’importanza del loro voto.

Altissime percentuali vennero raggiunte anche nel 1974, quando a decidere sull’abrogazione del divorzio furono ben un 87,72% degli aventi diritto e nel 1981 rispose alla chiamata per il referendum sul divorzio il 79,41% dell’elettorato.

Il risultato delle ultime elezioni è a dir poco deludente e scoraggiante: sia per i politici che hanno, in questo, tutti fallito, sia per il Paese che, di fatto, trova ai propri vertici rappresentanti eletti da una ristretta minoranza di elettori.

Il risultato del voto si presta a diverse tipologie di interpretazioni e, come sempre, difficilmente sentiremo la voce di qualche politico, magari un leader di partito, assumersi la responsabilità di una sconfitta; più facile, ad esempio, che in un partito crollato di venti punti percentuali dalla precedente tornata elettorale, il segretario dichiari che “abbiamo retto di fronte alle corazzate avversarie e rappresentiamo la volontà del 7% degli elettori.” La chiave di lettura corretta, viceversa, dovrebbe muovere dal fatto che in passato avevano il 27% del sessanta percento di coloro che avevano votato, mentre oggi, alle cifre indicate, sarebbe il dire che “siamo ridotti al 7% di coloro che hanno votato. Il che potrebbe voler dire che in elezioni non nazionali, come le ultime, il numero effettivo di elettori potrebbe essere inferiore a quello di una media città di provincia.

Ma, prescindendo dal dato numerico peraltro importante, ciò che emerge sono la disaffezione e il disinteresse verso la politica. D’accordo, non siamo più nel 1948 o negli anni settanta, ma anche nel 1992, all’alba di tangentopoli, furono ancora quasi il 90% degli elettori a recarsi alle urne.

Le principali differenze rispetto ad un momento storico che sembra lontanissimo anche se sono passati solo trent’anni? Qualcuno potrebbe pensare alla rete e alla sua capacità di aggregazione ma, come qualcuno ha fatto notare, il più marcato tratto distintivo sono in primis i personaggi che fanno politica e il modo con cui si pongono all’elettorato magari proprio grazie alla rete.

Internet ha la capacità di far unire le persone intorno ai più svariati interessi; basti pensare ai gruppi Facebook che, in scala più ridotta, possono ricordare addirittura la parabola del Movimento 5 Stelle. Il partito grillino nacque sul “vaffa” alla vecchia politica e, proprio come un gruppo Facebook si è estinto quando i suoi adepti si sono annoiati o hanno scoperto un nuovo gruppo.

La rete ed i social, come rilevato addirittura in un noto provvedimento del Tribunale di Roma, sono diventati luoghi indispensabili per il dibattito politico e per la democrazia, ma ciò ha fatto perdere di vista il loro reale ruolo e lo scopo che non sono quelli, come viceversa qualcuno pensa, di fare politica.

Sono però cambiati, e non sempre in meglio, i politici e il modo di intendere la politica. Non è un mistero che la maggior parte dei leader di partito, a differenza di quelli del passato, non ha alle spalle un percorso di studi spendibile o che sia stato in qualche modo una base di preparazione per risolvere i problemi dell’Italia. Mancano, e se ne sente la mancanza, le scuole di partito che formavano le vecchie classi dirigenti ma, più che altro, sembra manchino le idee.

Populismi, posizioni intransigenti in teoria che si scontrano con la realtà da affrontare, cambi di casacca in corso di legislatura e alleanze che si dichiarava non sarebbero mai state concluse. Si potrebbe continuare ma, si spera, di avere reso l’idea.

Una politica che vuole raccogliere i mal di pancia del momento è destinata a non avere una lunga vita e di ciò è bene che i leader, presenti e futuri, se ne rendano conto o, anche loro, sono destinati a rapidi turnover. La competenza e il carisma non da Rete potrebbero essere apprezzati. L’apprezzamento di cui gode Mario Draghi, dovrebbe essere un segno in tal senso.

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