L’ira di Erdogan
Che il Presidente turco Erdogan fosse irascibile e violento, lo si sapeva. Ora, con l’espulsione di dieci Ambasciatori occidentali, ha raggiunto limiti non toccati neppure nella Guerra Fredda. Eppure, per quanto esagerata e scomposta, la furia di Erdogan non è del tutto incomprensibile. I dieci Ambasciatori hanno firmato un pubblico appello di protesta per l’arresto di attivisti politici e umanitari, criticando così, pubblicamente e dichiaratamente, l’azione del Presidente.
Ho fatto per quarantatré anni questo mestiere e sempre più mi sono reso conto di quanto equilibrio e prudenza esso esiga, anche se a volte a scapito delle proprie intime convinzioni. Interferire nelle vicende del Paese di accreditamento non è compito di un Ambasciatore. Il suo ruolo è quello di un ponte tra due Paesi, i rispettivi governi, società e culture. Se sorgono problemi, il suo dovere è affrontarli con discrezione e buon senso. In ogni caso, condizione per fare decentemente il proprio mestiere è essere in rapporti di fiducia e di stima con le Autorità locali.
Nel caso specifico, la Turchia non è una qualsiasi insignificante repubblica bananera, ma un grande e forte Paese e un alleato spinoso ma essenziale. Ed è un Paese orgoglioso e suscettibile. Stuzzicare inutilmente questa suscettibilità (dico inutilmente, perché quel tipo di manifestazioni pubbliche di solito non migliora, ma peggiora la situazione, creando sgradevoli conflitti verbali) è, come direbbe Talleyrand “peggiore di un crimine, è un errore”.
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