Realpolitik, l’arte della Diplomazia
Tra un paio di mesi Henry Kissinger compirà novantanove anni: un record se consideriamo gli accidenti e le maledizioni sicuramente ricevute dall’ex Segretario di Stato americano che spaziano in un periodo di tempo che inizia dalla Guerra del Vietnam, eredità scomoda della presidenza Nixon le cui premesse risalgono a quella di Kennedy, e che va ben oltre le dimissioni di “Tricky Dicky” e comprende anche il colpo di Stato in Cile che portò alla morte del presidente Allende.
Nato in Germania, di famiglia ebraica, Kissinger si spostò negli Stati Uniti nel 1938 per sfuggire alle persecuzioni naziste, e può essere considerato l’emblema di come, perlomeno all’epoca, gli States fossero la patria di chi, con tanta buona volontà, può raggiungere vertici elevatissimi. E forse ciò è vero anche oggi se consideriamo che un culturista austriaco è riuscito attraverso la conquista di Hollywood a diventare Governatore della California mentre qualcuno, da noi, venderebbe la nonna per un posto da assessore in un municipio di periferia (mi si perdoni l’ingeneroso paragone, ma si voleva rendere l’idea con un esempio eclatante.
Per tornare al figlio di un insegnante ebreo e di una casalinga emigrati, Kissinger venne nominato professore universitario ad Harvard e ottenne prestigiosi incarichi anche governativi prima di quello che lo portò all’attenzione dell’opinione pubblica mondiale: Segretario di Stato con Nixon, in una presidenza che, seppur oggetto di critiche e scandali, ottenne importanti risultati proprio in Vietnam (Kissinger ebbe il Nobel per la Pace) e con gli accordi con Pechino del 1972 e dei quali oggi forse ci pentiamo considerata la situazione tra Cina e Taiwan che ricorda, pur con molti distinguo, quella tra Russia e Ucraina.
Kissinger viene associato alla frase di cui ha smentito la paternità: “Chi devo chiamare se voglio parlare con l’Europa?”. Chi l’ha realmente pronunciata si voleva riferire ad un’Europa con cui poter interloquire per questioni che richiedono una unica linea di politica territoriale e, possibilmente, estera. O forse era un richiamo a quel concetto storico, politico e territoriale che risale perlomeno al Manifesto di Ventotene. Per quanto possa sembrare una domanda strana, specialmente in riferimento al momento storico in cui sarebbe stata pronunciata, il concetto è di drammatica attualità oggi e ce ne rendiamo conto di fronte all’invasione dell’Ucraina da parte della Russia.
L’Europa unita è un qualcosa che forse non è mai stata tale neppure ai tempi dell’Impero Romano, quando tra il 117 e il 140 raggiunse la sua massima espansione: i popoli per quanto uniti sotto le insegne di Roma erano troppo diversi tra loro e tali sono rimasti, ancor più divisi perlomeno fino al 1989: alcuni per ragioni obiettive, altri ancor più intolleranti con i vicini con cui erano condannati a convivere come nella dissolta Jugoslavia. Ma la necessità di una Europa unita era già un richiamo che va ben oltre i limiti territoriali linguistici o di tradizione. Era ed è una necessità di Realpolitik, quella di cui Kissinger era campione.
Forse la Realpolitik è nata con la Ragion Di Stato con Richelieu, o all’epoca della frase mai detta ma attribuita a Machiavelli “Il fine giustifica i mezzi”. È sicuramente un concetto che attirerà gli strali dei sedicenti padroni del politically correct che invocheranno tavoli di trattative tardivi, ragionevolezza, buon senso e buonismo d’occasione. Ma non dimentichiamo che quando la realpolitik, il pragmatismo del caso concreto, è stato sostituito, ci siamo trovati di fronte alla Weltpolitik, una politica di corsa all’armamento che ha portato a non pochi conflitti ad iniziare dalla Prima Guerra Mondiale.
La mancanza di oculatezza e visione politica da parte dell’Europa, o meglio di alcuni leader presenti e passati, è, se non una causa, quantomeno un presupposto di quanto sta avvenendo oggi. I separatismi, i particolarismi e la corsa a una battaglia antieuropea per primeggiare nei propri orticelli domestici non hanno sicuramente portato benefici se non a qualche egoista locale.
La lezione di Kissinger e della Realpolitik non è stata a suo tempo colta e gli effetti, purtroppo, al di là della mancanza di statisti, specialmente in Italia, si vedono. È forse giunto il momento di una nuova realpolitik.
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