Otto anni senza Gabo e l’amore in tempi di Covid
Otto anni fa, ci lascava Gabriel Garcia Marquez, lo scrittore colombiano soprannominato “Gabo”, Premio Nobel per la letteratura nel 1982 che, con la sua penna, ha saputo descrivere quasi col tono di un affresco non solo la sua terra, la storia della sua gente, ma quella di un intero mondo collocato in un tempo e un luogo immaginari ma che ben possono adattarsi ad un oggi non ben definito. Gabo inizia come giornalista ma poi dieci romanzi, molti racconti, saggi, un’intensa attività letteraria ad ampio spettro e una costante presenza sullo scenario politico centro e sudamericano hanno segnato il suo percorso.
Marquez ha caratterizzato il panorama letterario non solo sudamericano della seconda metà del secolo passato con i suoi libri fatti di un rincorrersi di presenti e passati, in atmosfere quasi magiche e personaggi che sembrano galleggiare in ambienti talvolta magici ed esoterici in cui la superstizione popolare è una costante irrinunciabile così come il voler da parte di molti allontanarsi da un contesto all’interno di cui sono nati e che sembra non volerli far fuggire.
In Cent’anni di solitudine, il suo capolavoro che gli ha consegnato il Nobel, tutto ciò è probabilmente più vivo, ma il libro è a volte troppo difficile e incomprensibile in alcuni passaggi, Il lettore, per non distrarsi, deve prestare troppa attenzione al rincorrersi e ripetersi dei nomi di sette generazioni di Aureliano e Arcadio, in una storia che spazia, nella narrazione, dagli assalti del pirata Sir Francis Drake fino alla nascita della moderna Colombia e alla sua crisi economica. Ma quella della famiglia Buendia è una storia di difficile collocazione al di fuori del contesto locale, così come potrebbe esserlo quella narrata in “Cronaca di una morte annunciata” che, peraltro, ben potrebbe ritrovarsi anche in vicende di casa nostra,
Ma la storia narrata da Marquez (che sarebbe interessante sapere come la potrebbe ripercorrere oggi, in piena epoca Covid) è L’amore ai tempi del colera. Difficile oggi immaginare una persona come Florentino Ariza che sembra vivere di sesso ma che ha bisogno di amore ed ama per cinquantuno anni, nove mesi e quattro giorni una donna nonostante il matrimonio d’amore di lei e che solo dopo i settant’anni di età riesce ad averla in maniera così profonda e intima.
Che cosa avrebbe potuto scrivere, oggi, Marquez ai tempi in cui l’amore si muove online e Facebook ha fatto chiudere le agenzie matrimoniali; un tempo in cui ai giovani bastano pochi click per entrare in contatto immediato con la ragazza che ammicca su Instagram o il ragazzo che mette online i video dei suoi allenamenti su YouTube.
Difficile anche immaginare che possa ripetersi online l’incredibile storia di vero amore, quello che pian piano scopre in tarda età il protagonista di Memorie delle mie puttane tristi che non era mai andato a letto con una donna senza pagarla. Difficile oggi descrivere atmosfere che sono anche sentimenti e sensazioni; impossibile far provare la sensazione del ricordo del giorno in cui suo padre lo portò a conoscere il ghiaccio, che tornò alla mente del colonnello Aureliano Buendia molti anni dopo, davanti al plotone d’esecuzione.
Uno scrittore nativo digitale, o che voglia comunque rivolgersi al pubblico smaliziato della Rete, non può perdersi in descrizioni di paesaggi fantastici dei quali l’autore riesce a trasmettere anche gli odori. Difficile oggi pensare che si possano comprendere i sentimenti di Angela Vicario e Bayardo San Romàn trasmessi in lettere scritte a mano, addirittura con pennino e calamaio, il cui contenuto non poteva essere quello dell’attuale copia incolla.
Manca una penna come quella di Marquez; manca il suo acume e la capacità di analizzare dentro le situazioni cogliendo ogni loro sfaccettatura. Come avrebbe raccontato un momento storico in cui l’umanità si è trovata a parlare e confrontarsi dietro un monitor perdendo il contatto diretto e il poter mettere di fronte agli altri sguardi ed emozioni?
Chissà come Gabo avrebbe descritto l’amore ai tempi del Covid.
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