Il processo di Verona del 1944
Si aprì l’8 gennaio 1944 (per chiudersi dopo soli tre giorni) il Processo di Verona, un procedimento nei confronti di sei dei membri del Gran Consiglio del Fascismo che, nella sua ultima seduta il 25 luglio dell’anno precedente, avevano votato l’Ordine del giorno Grandi e la conseguente sfiducia nei confronti di Mussolini.
Il 25 luglio è la data che, di fatto, segnò la fine del regime fascista e pose le premesse per la nascita della Repubblica Sociale Italiana. Mussolini, sostituito alla guida del governo dal maresciallo Badoglio venne arrestato e, dopo alcuni trasferimenti, venne imprigionato a Campo Imperatore, dove venne liberato nel successivo settembre da un gruppo di paracadutisti tedeschi, anche in esecuzione del cosiddetto “Piano Achse” predisposto dal comando supremo della Wermacht per controbattere un’eventuale uscita dell’Italia dalla guerra, neutralizzare le sue forze armate schierate nei vari teatri bellici del Mediterraneo e occupare militarmente la penisola.
Hitler e i suoi generali erano probabilmente ben consci di quanto fosse concreto il rischio di una caduta del fascismo in Italia e di perdere un alleato che, seppur militarmente non rappresentava un serio problema per le forze alleate, avrebbe quantomeno sostenuto gli sforzi bellici tedeschi.
La Repubblica di Salò fu nei fatti un governo fantoccio della Germania e, probabilmente, la scelta di mettere Mussolini alla sua guida fu una soluzione di ripiego rispetto ad altri nomi che avrebbero trovato maggior gradimento quali, ad esempio, suo figlio Vittorio o Farinacci. Nata comunque formalmente a settembre, quella di Salò fu un’esperienza che terminò con la resa di Caserta, quando ciò che restava degli eserciti tedesco e fascista abbandonarono il conflitto.
Tuttavia, l’esperienza di Verona servì a Mussolini per quella che non è chiaro se fosse una sua vendetta personale oppure – come sostenuto dallo scrittore tedesco Victor Klemper – una farsa, opera dei tedeschi, nella quale Mussolini, considerato addirittura come l’ombra di un burattino fu spettatore passivo. Secondo Klemper questa vicenda era volta soprattutto a scoraggiare gli oppositori interni del regime nazista.
Finirono sotto processo Giovanni Marinelli, Carlo Pareschi, Luciano Gottardi, Tullio Cianetti, l’ex quadrumviro Emilio De Bono e l’ex ministro degli esteri, nonché genero di Mussolini, Galeazzo Ciano. A giudicare gli imputati venne chiamato il tribunale Speciale appositamente ricostituito nel dicembre 1943 proprio allo scopo di occuparsi dei traditori del 25 luglio.
Tre soli giorni di processo da parte di un tribunale di una neonata e non riconosciuta Repubblica nei confronti di coloro che, per i fatti di cui all’imputazione, erano membri di un Corpo rappresentativo del Regno d’Italia, sono sintomatici della effettiva validità del processo, così come la fucilazione di cinque di loro il giorno dopo; senza possibilità di appello.
È attribuita a Mussolini stesso la frase rivolta a Piero Pisenti, ministro della Giustizia della RSI la frase “Voi, Pisenti, vedete nel processo solo il lato giuridico. Giudicate, in altri termini, questa faccenda da giurista. Io devo vederla sotto il profilo politico! Le ragioni di Stato sommergono ogni altra contraria considerazione. E ormai bisogna andare fino in fondo“. Il Pubblico Ministero Andrea Fortunato, nel chiedere la condanna a morte di tutti gli imputati ebbe a dire “Così ho gettato le vostre teste alla storia d’Italia; fosse pura la mia, purché l’Italia viva”. Il clima che si respirava era evidente. L’unico a salvarsi dalla fucilazione alla schiena a seguito della condanna per tradimento, fu Tullio Cianetti, condannato a trent’anni con le attenuanti generiche.
Il processo e i suoi antefatti hanno avuto come cornice la vicenda dei diari di Ciano che, secondo una attendibile ricostruzione, sarebbero stati offerti per la sua grazia. Molto è stato scritto anche sul ruolo di Edda Ciano, figlia del Duce e dei suoi tentativi di salvare il marito.
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