Europa, la lezione dell’Ucraina
La violenza è sempre e comunque orrore. Confesso però che lo spettacolo che sta dando l’Ucraina è tra i più straordinari ed esaltanti di questi anni: per la prima volta un grande popolo, il più grande d’Europa, scende nelle piazze, non per gridare il proprio egoismo campanilista, non per urlare contro Bruxelles, ma per manifestare in nome e per l’Europa. Veramente, ex Oriente lux!
Nelle proteste si incrociano probabilmente anche altri motivi di scontento verso un potere autoritario, distante e asservito al padrone moscovita. Ma l’origine è quella: gli uomini e le donne che scendono in piazza si sentono, e vogliono essere, europei, non russi, non semiasiatici, e neppure soltanto, sciovinisticamente, ucraini. E quello che concretamente chiedono è un accordo che li associ strettamente a quell’Unione Europea nella quale sperano di entrare un giorno a pieno titolo: quell’accordo a cui il nuovo zar, Putin, si oppone.
Alla mente tornano le prime, appassionanti settimane dopo la caduta del Muro di Berlino. Al Segretariato di Politica Estera della CE che allora dirigevo, seguivamo da vicino tutto quanto accadeva ad Est. Ci rendemmo conto allora di una cosa straordinaria: in tutti gli anni oscuri della tarda Guerra Fredda, sotto la cappa soffocante della disinformazione di Stato, in tutti i Paesi dell’Europa centrale e orientale la gente guardava con ardore e speranza quanto avveniva in Europa Occidentale, a quel grande movimento ideale, politico ed economico, che portava antichi popoli a lasciarsi dietro le spalle secoli di incomprensioni, differenze, conflitti sanguinosi, per integrarsi in un insieme nuovo e coerente – non un impero dominato dal più forte ma un’unione liberamente consentita – capace di assicurare pace, prosperità, libertà al Vecchio Continente culla della civiltà e di restituirgli quel posto nel mondo che le guerre fratricide gli avevano tolto. E fu come un vento tonico e rinnovatore. Noi che eravamo impegnati nel giorno per giorno di un’integrazione spesso difficile (non poche volte in mezzo a egoismi e meschinità) fu come se ci fossimo visti d’improvviso attraverso gli occhi di chi ci guardava dal di fuori, che ignorava le nostre paure, le nostre perplessità, i nostri egoismi, e ci faceva capire quanto grande, quanto necessaria e bella fosse l’impresa nella quale eravamo impegnati.
L’ho scritto altre volte ma non mi costa ripeterlo: si trattava e si tratta della sola, vera, grande avventura politica e umana che l’Europa ha saputo dare al mondo a partire dalle macerie di una guerra disastrosa. L’unica per la quale valesse e valga la pena di battersi, l’unico, grande ideale a cui ispirarsi per un europeo in un mondo di piccolezze, volgarità e disillusioni. Capimmo anche che quei popoli – che l’avventura l’avevano vista e sognata da lontano – la vedevano, molto meglio di quanto la vedessimo noi, presi nelle piccole e grandi diatribe quotidiane tra noi, con gli americani, con i loro fedelissimi e scettici inglesi, come parte del più ampio fenomeno d’integrazione dell’Occidente di cui era parte l’Alleanza Atlantica; quell’Occidente al quale essi guardavano con passione e con speranza, un ampio insieme di genti di comune civiltà – la civiltà nata dal pensiero greco-romano, dal Cristianesimo e dall’Illuminismo – nella quale quei Paesi, Polonia in testa, sono uno ad uno entrati come ritornando alla Casa comune. E a noi, come da fratelli maggiori, già entrati nell’età adulta, chiedevano che ci comportassimo con serietà, responsabilità, e tensione creativa, in modo che le grandi speranze di tutti non si disperdessero e immiserissero nel trito gioco delle meschinità e dei campanilismi quotidiani.
Così vedemmo Paesi che avevamo considerati definitivamente aggiogati al carro sovietico venire a bussare alla nostra porta, chiedendo dapprima solo una mano tesa, un riconoscimento ideale, un qualche tipo di dialogo politico, poi rapporti di associazione, infine l’ingresso a pieno titolo nell’Unione: un fenomeno che ha portato l’Europa dai sei membri originali a ventiquattro, ventisei, presto di più ancora, cammino senza ritorno, sfida allo scetticismo miope dei poveri di spirito, segno eloquente del successo di un’idea pur tanto spesso – anche a casa nostra – negata, immeschinita, combattuta.
Quei tempi, pur non lontanissimi, parevano dimenticati. Uomini e donne che non li avevano vissuti, o li avevano cancellati correndo dietro agli imbonitori di turno, uomini e donne che si erano trovati pace, progresso, diritti civili, libertà, belli e serviti e tutto davano per scontato, parevano ignorare che a quel grido di libertà che scosse il Continente, e che pure ci fece fremere tutti, andava unito il grido “Europa, Europa!”.
Eppure oggi quei tempi paiono miracolosamente rinverdirsi e rivivere nell’estremo orientale del nostro Continente, in quel vasto Paese la cui cultura ci sembra lontana dalla nostra (un Paese che a noi, così superficiali, talvolta appare come “quello delle badanti”). Oggi è quel Paese che agli albori della ritrovata libertà dell’Est pareva estranea, lontana, ostaggio ancora della vecchia intimità col mondo russo, a reclamare la propria identità europea e ad esigere a voce alta, forte, persino con la violenza, non meno, ma più Europa.
Che lezione per noi. Che schiaffo per i deliranti nanerottoli di casa nostra, i Grillo, i Salvini, i Magdi Allam, gli squadristi di Casadapound, i loro complici in una destra tentata di giocarsi per meschini calcoli elettorali la carta antieuropea! Mentre discettano, da ignoranti o in malafede, sui torti dell’Europa, mentre farneticano di uscite dall’euro e dall’Unione, per noi che dell’Europa siamo parte fondatrice e costitutiva, in un grande Paese che dell’Europa è la marca di frontiera, un Paese che ha ritrovato la sua libertà meno di un quarto di secolo fa dopo secoli di oscuramento, decine, centinaia di migliaia di uomini, donne, giovani, anziani per l’Europa scendono nelle piazze, per l’Europa si battono, per l’Europa sono disposti a giocarsi tutto.
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