30 aprile 1950, l’eccidio di Celano
Tra i misteri irrisolti d’Italia, che vanno dal caso di Emanuela Orlandi ai mandanti del delitto Pecorelli e a quelli di altre vicende i cui autori sono sconosciuti, forse il primo è l’eccidio di Celano.
Il 30 aprile 1950 a Celano, comune abruzzese in provincia de L’Aquila, due morti e almeno dodici feriti furono il bilancio di una giornata che non era programmata per manifestazioni o altre iniziative, bensì doveva essere destinata all’individuazione dei braccianti che avrebbero avuto un lavoro nei giorni successivi nei lavori agricoli.
Era l’Italia dell’immediato dopoguerra, ancora lontana dal “boom economico” degli anni ’60, che presentava profonde differenze tra le zone urbane, in rapido sviluppo, e quelle rurali, legate ancora ad un’economia contadina e, nel meridione, agli interessi dei grandi latifondisti che erano stati protetti durante il ventennio e, ancora, trovavano appoggio nel Governo dell’epoca in attesa di una riforma agraria organica che venne varata solo molti anni dopo.
Era l’Italia di Peppone e Don Camillo, nella quale le azioni venivano prima di avere pensato alle possibili conseguenze e dove le passioni politiche influenzavano il vivere quotidiano. Non si erano certo spenti gli echi delle elezioni che, nel 1948 avevano visto la vittoria della Democrazia Cristiana sul fronte socialista e qualcuno, probabilmente, ancora aspettava il segnale per dare il via alla rivoluzione popolare stoppata addirittura da Mosca il giorno dell’attentato a Togliatti.
Il motto che si sentiva sulle piazze era “La terra a chi la lavora” e la CGIL, in origine unico sindacato dei lavoratori, aveva subito la scissione che portò alla nascita della CISL ed era ancora vivo l’eco della strage di Portella della Ginestra da parte della banda di Salvatore Giuliano. Altre stragi si erano consumate, ad esempio, in Calabria, a Melissa, dove tre contadini rimasero vittime nei disordini scatenati dal tentativo di occupare le terre incolte del Barone Berlingieri, ma anche in Puglia e Basilicata non mancarono le vittime.
Il 30 aprile 1950, si riunì nel municipio di Celano una commissione di collocamento che avrebbe dovuto stabilire i turni dei braccianti per il 2 maggio, dopo la conquista di 250 mila giornate lavorative a carico dei Torlonia. Il quadro della vicenda è ben tracciato da Ignazio Silone nel suo libro Fontamara: la zona era di fatto un feudo della famiglia Torlonia e si scatenarono proteste per far valere la normativa allora vigente dell’imponibile di manodopera che imponeva l’assunzione di lavoratori agricoli, successivamente abrogato da una sentenza della Corte Costituzionale.
A Celano le associazioni di categoria, i sindacati e le autorità comunali non trovarono l’accordo così, alle 18,00, la seduta fu sciolta. I braccianti però, pur senza che protestare, restarono a discutere in piazza IV Novembre fino alle 20,00, il momento in cui il vicesindaco, Angelo Tropea, diede l’ordine ai carabinieri di disperdere la folla.
Lo sparuto manipolo di cinque militari, da quanto riportano le cronache, senza che ve ne fosse apparente motivo, iniziarono a sparare. Dal lato opposto della piazza esplosero altri colpi di arma da fuoco esplosi, pare, da alcuni uomini di Torlonia ed esponenti locali del MSI. Pochi minuti e restarono a terra due braccianti, Antonio Berardicurti di 35 anni ed Agostino Paris di 45 anni, entrambi sposati e con figli in tenera età.
Il quotidiano del Partito Comunista L’Unità, a firma di Luigi Pintor, parlò di vendetta e rappresaglia contro una conquista dei lavoratori. Nel discorso tenuto il giorno dei funerali, alla presenza di migliaia di persone giunte da lontano e con uno sciopero generale appositamente indetto, l’allora leader della CGIL, Giuseppe Di Vittorio, oltre ad un appello di pace e democrazia, dichiarò espressamente che sarebbe stato riconquistato il feudo ai Torlonia.
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