Giulio Cesare Vanini che morì da filosofo
La data del 17 febbraio 1600 è passata alla storia per il Rogo a Roma, in Campo dei Fiori, di Giordano Bruno, il primo martire del Libero Pensiero. Altri hanno seguito il suo destino in maniera anche più feroce. Il più emblematico e misconosciuto, ancorché molto considerato all’estero, è Giulio Cesare Vanini, nato in Puglia nel 1585 da padre toscano e madre di origine spagnola. Il nome vero è Lucilio ma, nei suoi scritti, ha sempre usato Giulio Cesare.
È verosimile che il pensiero di questo filosofo, indicato anche tra gli esponenti del libertinismo erudito, sia stato influenzato proprio da quello di Bruno; infatti, studiò teologia a Padova, dopo essere entrato nell’ordine dei carmelitani, pochi anni dopo che il filosofo di Nola aveva tenuto in quella città le sue lezioni cercando di ottenere la cattedra di matematica. Vanini era infatti entrato nell’ordine domenicano
Vanini venne notato per atteggiamenti ritenuti antipapali e, in epoca di roghi e torture nei confronti di chi non si omologasse al pensiero imposto dalla Chiesa in piena controriforma, si rifugiò sotto falso nome in Inghilterra dopo avere attraversato i paesi in cui più forte si sentivano le voci del crescente Protestantesimo.
Convertito con il confratello Bonaventura Genocchi all’anglicanesimo, alla presenza addirittura di Francesco Bacone, iniziò a predicare attirando l’attenzione dell’inquisizione che, con un’operazione tale da destare scandalo per i personaggi coinvolti, riuscì a farli arrestare prima della loro fuga.
Riuscirono comunque a fuggire in seguito separatamente e, ottennero anche il perdono dall’accusa di apostasia, ma il processo avanti al Tribunale dell’Inquisizione andava comunque avanti e, non confidando nelle rassicurazioni ottenute, specialmente dopo il proditorio arresto di Genocchi a Genova, fuggì di nuovo in Francia dove compose alcune opere tra cui il De Admirandis Naturae Reginae Deaeque Mortalium Arcanis che ebbe successo presso ambienti della nobiltà che guardavano all’innovazione ma che fu attenzionato ancora dall’Inquisizione. Non è dato sapere con assoluta certezza se il volume in circolazione fosse quello originariamente approvato da due teologi di comprovata osservanza della Sorbona o una diversa versione.
Dopo una nuova fuga in Inghilterra e il ritorno in Francia, viene arrestato nell’agosto 1618; si parlava di un misterioso italiano che aveva una gran cultura ma un passato incerto e, in effetti, è verosimile che il Vanini operasse sotto il nome di Pompeo Uciglio. Il 9 febbraio 1619, riconosciuto colpevole di ateismo e blasfemia, Vanini ebbe la lingua strappata e, dopo essere stato strangolato, il suo corpo venne bruciato.
Nelle sue opere Vanini utilizzò ampiamente, tra gli altri, le idee di Pietro Pomponazzi e Niccolò Machiavelli, Gerolamo Cardano e Giulio Cesare Scaligero, tra gli altri, propose un razionalismo radicale di natura materialistica e meccanicistica che non lasciava spazio ai fenomeni soprannaturali presenti nella tradizione cristiana e reinterpretò le religioni a partire una prospettiva politica come strumenti creati dalle classi dominanti.
A Vanini non è concessa, oggi, l’attenzione che è stata dedicata a Bruno e altri filosofi e studiosi dell’epoca, ma viene citato da Voltaire nel suo Philosophical Pocket Dictionary nell’articolo sull’ateismo, Hegel gli dedica ben sette pagine nelle sue lezioni di storia della filosofia e anche Arthur Schopenhauer elogiò la sua posizione antiteista e sottolineò il suo martirio accanto a quello di Giordano Bruno. Decisamente opposta la visione di Leibniz, che ritiene i suoi scritti di poco valore e non lo considerava degno di essere bruciato ma, al massimo, rinchiuso.
Degne di considerazione le sue ultime parole. Infatti, dopo avere rifiutato il prete e prima di essere consegnato al suo boia, ebbe a dire al Commissario che lo prelevava, “Avanti, andiamo allegramente a morire da filosofo”.
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