Rom, Sinti, Caminanti

Facciamo un breve riassunto storico. Le popolazioni Rom, originarie dell’India, sono presenti in Italia da più di seicento anni. Fra i più antichi documenti storici che ne testimoniano l’arrivo, vi sono quelli riguardanti il passaggio per Forlì (anno 1422) e per Fermo (1430) di un gruppo di circa duecento “indiani” diretti a Roma per ottenere indulgenza e protezione dal Papa, ma è probabile che altri gruppi avessero già raggiunto le coste del Sud, dalla Grecia.

Più che un’unica lingua, di origine indo-ariana, i vari gruppi sparsi per l’Europa parlano dialetti romani, che, seppure influenzati dalle lingue locali e comprendenti una grande quantità di vocaboli stranieri, presentano una notevole unità lessicale. Mentre i Rom ed i Sinti stanziati in Italia parlano i dialetti romani, i Caminanti stanziati presso Noto hanno adottato il dialetto locale. Due i gruppi maggiormente diffusi: i Rom (residenti in tutte le Regioni italiane) e i Sinti (soprattutto nel Nord e nel Centro). Vi è poi la comunità dei Caminanti, che – come dicevamo – sono prevalentemente sedentarizzati in Sicilia a Noto.

Le bambine Rom vengono già da molto piccole educate alla cura della casa e dei fratelli minori, solitamente molto numerosi. Fino ad una certa età possono frequentare la scuola o essere libere di girare nel campo e per strada con i pari; al sopraggiungere della pubertà, però, capita spesso che le giovani vengano recluse nelle baracche e costrette ai lavori domestici senza che abbiano contatti con l’esterno.

Le ragazzine si mostrano già molto più grandi rispetto alla loro età anagrafica: appaiono come donne capaci di badare ai fratellini spesso neonati, vengono affidate loro mansioni casalinghe anche complesse che svolgono spesso con naturalezza, senso del dovere ma anche con orgoglio. A 12 anni circa cominciano ad indossare le gonne lunghe ed a parlare poco; vengono educate alla riservatezza e si apprezza il loro essere docili, educate, ma anche sveglie e abili. Vengono protette e controllate, soprattutto dai padri e dai fratelli, affinché restino “integre”, cioè vergini e sane fisicamente. Da quest’età in poi le ragazzine possono essere richieste in sposa in cambio di un’offerta economica.

I bambini maschi vengono educati al machismo ed alla violenza fin da piccoli; sono spinti ad ostentare un atteggiamento di virilità che si manifesta attraverso la messa in pratica di comportamenti aggressivi e di cura esasperata della propria prestanza fisica.

La mascolinità è una pubblica performance: i maschi devono dimostrare di essere veri uomini con il fracasso e la messa in scena della propria virilità. Lo spettacolo pubblico del machismo diventa così una gara di abilità, che può avere un’escalation dal fracasso al mettersi in mostra, dal mettersi in mostra alla competizione, per sfociare a volte nella violenza.

Si deve puntare sulle donne perché la loro emancipazione è la chiave che consente alla comunità di aprirsi al futuro, di includere le nuove generazioni. La subordinazione delle donne è purtroppo un tratto tipico di queste come di altre minoranze culturali e sul quale occorre incidere, ma è un’operazione da svolgere con cautela proprio perché tocca un carattere identitario della comunità. Capovolgere frettolosamente i rapporti di genere rischia di produrre chiusure a riccio. Lo status poco elevato dei bambini è un altro problema da affrontare e la scuola deve essere lo strumento di una progressiva emancipazione dei minori.

Tuttavia, la riforma dei rapporti di potere tra i generi e tra le generazioni non si ottiene in tempi brevi e con metodi bruschi, occorre un’opera di convinzione a lungo termine. Intanto è importante portare i bambini e magari le loro madri a scuola.

Una tattica, che si è dimostrata utile per l’inserimento scolastico, consiste nel coinvolgimento diretto dei bambini nelle attività didattiche, attraverso pratiche per loro piacevoli e adatte ai loro stili di vita. In questo modo si dà un duplice segnale positivo: si riconosce dignità alla differenza, si postula capacità di fare.

L’istruzione è un diritto universale e uno strumento di emancipazione individuale e sociale; la scuola è un luogo di pari opportunità e rappresenta il luogo di socializzazione e inclusione principale per i bambini Rom e non solo. L’idea parte dal presupposto per cui, un contesto scolastico accogliente e un processo di apprendimento che valorizzi le competenze e il sistema valoriale dei bambini porta benefici sia relazionali sia cognitivi non soltanto al target specifico di bambini Rom, ma all’intero sistema scuola. L’intento è quello quindi di creare un ambiente scolastico favorevole all’apprendimento cooperativo (cooperative learning) e all’integrazione interculturale.

È altresì opportuno l’utilizzo dei laboratori quale strumento di supporto delle relazioni scuola-famiglia RSC (Rom, Sinti, Caminanti) e famiglie RSC con altri genitori e la conclusione dei laboratori con una festa, un rito, un evento di presentazione ai genitori di tutti i bambini del percorso fatto. Si dovrebbero prevedere incontri di sensibilizzazione con le famiglie e le insegnanti, visite e la facilitazione di accesso nel corso degli anni di intervento. L’obiettivo per la prescolarizzazione almeno dei bambini RSC di cinque anni dovrà diventare uno degli obiettivi di policy locale.

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