Eroi dimenticati, i martiri di Gerace

Italia, il bel paese delle grandi divisioni. A far data perlomeno dall’epoca in cui si doveva scegliere tra Mario e Silla fino alle ancora dibattute questioni se parteggiare per Coppi o Bartali, e attraverso addirittura schierarsi con i Guelfi o i Ghibellini, l’Italico popolo ha sempre trovato due schieramenti opposti a cui poter aderire e, sempre, le scelte sono state estremamente divisive e i partigiani delle due fazioni difficilmente intravedono i grigi: nero o bianco senza possibilità di scelta.

Argomento tra i più divisivi di sempre è il nostro Risorgimento, un movimento che, storicamente, ha caratterizzato buona parte dell’Ottocento e si è concluso con l’unità geografica d’Italia la cui maggiore utilità sembra sia quella di avere offerto da allora (oltre centosessanta anni!) argomenti di dibattito.

In ogni caso è un periodo storico che rimane e che è stato caratterizzato da uomini che, a differenza dei leoni da tastiera odierni, credevano nei loro ideali al punto di scendere in piazza emettere in gioco la loro stessa vita per la libertà di un popolo che non si riteneva tale.

Tra i tanti eroi poco conosciuti e barbaramente dimenticati troviamo nomi che, tolti i luoghi di origine, e forse neppure in quelli, non hanno neppure una strada a loro intitolata a differenza delle troppo gettonate vie Garibaldi o Mazzini.

Tra gli sconosciuti che hanno creduto in ciò che facevano, debbono necessariamente trovare una collocazione i cinque Martiri di Gerace, definiti con molta oculatezza nella targa a loro dedicata dal locale comune, Precursori di Libertà.

Si mossero infatti prima dei moti del 1848, assertori degli ideali mazziniani che infiammavano molti giovani dell’epoca. La loro storia dura soltanto un mese, dallo scoppio della rivolta mazziniana a Reggio Calabria fino alla loro fucilazione il due ottobre.

Il 2 settembre 1847 esplose a Reggio Calabria un’insurrezione contro il governo borbonico guidata da Domenico Romeo, che portò alla creazione di un governo provvisorio. Rocco Verduci fu nominato Comandante Militare dell’insurrezione per il Distretto di Gerace, mentre Michele Bello, Domenico Salvadori e Gaetano Ruffo si occuparono di estendere i moti di una lotta i cui combattenti gridavano addirittura “Viva Pio Nono”, illudendosi che il pontefice potesse essere davvero una guida verso l’unità d’Italia. L’insurrezione era stata approvata poco prima dal Comitato di Napoli e doveva svolgersi contemporaneamente a un’insurrezione poi fallita a Messina.

Nella sua breve esistenza il Governo provvisorio repubblicano riuscì a emanare alcuni provvedimenti importanti come l’abbassamento del costo del sale e dei tabacchi, l’abolizione del divieto di attingere acqua di mare (utilizzata come rimedio medico) e la soppressione del dazio governativo. Significativo che la rivolta non causò morti.

Il 15 settembre alcuni membri del comitato erano già stati arrestati dopo un tentativo di fuga e, immediatamente, venne celebrato un processo sommario da parte di una Corte Marziale.

Michele Bello, Pietro Mazzoni, Rocco Verducci, Gaetano Ruffo e Domenico Salvadori erano giovani; il più anziano aveva ventotto anni; provenivano da famiglie facoltose e avevano studiato a Napoli. Forse erano destinati a diventare funzionari di quel Regno che decisero di combattere.

Durante il processo condotto dal sottintendente di Gerace e dal generale Ferdinando Nunziante, diverse fonti riportano le parole di Verduci rivolte a quest’ultimo che gli aveva promesso salva la vita se gli avesse rivelato i nomi dei suoi complici: “Che domande incivili! E chi mai potrebbe riscattare la vita con il prezzo di tanta vergogna! Io credo che voi, Generale, da soldato d’onore non avreste la forza di consigliarmelo. Vennero condannati a morte, fucilati e i corpi gettati in una fossa comune.

Un’ultima nota che dovrebbe far riflettere: la pagina dedicata ai moti di Riace su Wikipedia in lingua francese, è molto più lunga di quella in italiano.

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