Fabio Viale: l’arte tra antico e contemporaneo
È uno scultore che ha saputo imporsi sulla scena internazionale con delle opere in marmo così coinvolgenti da divenire eventi. Nel 2002 realizza Ahgalla, una barca di marmo in grado di galleggiare, ma anche di trasportare persone con l’ausilio di un motore fuoribordo; viene varata a Carrara, Torino, Roma, Milano, Venezia, San Pietroburgo e Mosca. Parliamo di Fabio Viale (Cuneo, 1975): numerosissime le mostre in Italia e all’estero curate dai più accreditati critici d’arte, nelle più importanti gallerie, fiere e musei d’arte contemporanea, da New York a Basilea, da Miami a Londra; tra queste la personale del 2009 dedicata dal Loft Project Etagi di San Pietroburgo che ha registrato oltre 30.000 visitatori. Artista di interesse per numerose e importanti collezioni private e pubbliche, come il Museo del Novecento di Milano, nel 2010 realizza Cavour, un monumento a Camillo Benso Conte di Cavour per il Quirinale a Roma. Nel 2014 vince il prestigioso Premio Cairo e nel 2016, grazie alla collaborazione con la Galleria Poggiali di Firenze, è il primo artista a esporre due sculture di arte contemporanea nella Basilica di San Lorenzo a Firenze. Nel 2017 viene premiato al 52° Premio Internazionale “Le Muse” e partecipa alla 58^ Biennale di Venezia. È del 2021 la mostra di grande successo In Between presso Palazzo Reale a Torino e, in concomitanza, partecipa alla collettiva Canova tra innocenza e peccato curata da Vittorio presso il MART di Rovereto. È del 2022 Aurum, esposizione che racchiude più di 40 opere suddivise in quattro spazi espositivi sparsi nel centro storico di Arezzo e che ripercorre le tappe di tutta la sua produzione, dai primi lavori con la carta e i copertoni, alle ultime opere con gli intarsi d’oro. Lo abbiamo intervistato in occasione della sua mostra MONUMENTUM, allestita fino al 1° settembre 2023 nell’ambito del progetto “Orizzonte degli eventi”, a cura di Matteo Pacini, presso la Porta di Milano, al Terminal 1 dell’Aeroporto di Malpensa.
Buongiorno maestro Viale, innanzitutto complimenti per la sua arte che abbiamo ammirato, per ora solo in foto, ma spero presto dal vivo. Facendo una retrospettiva su di lei, come si è determinato a intraprendere e dedicarsi alla passione e carriera di scultore?
È stato tutto in effetti molto semplice. Ho compreso a 12 anni di avere questo dono, quando frequentavo il liceo artistico e il mio professore di scultura capì subito che mi riusciva molto meglio rappresentare una figura in 3D piuttosto che con il disegno o la pittura. Mi indirizzò, quindi, verso l’aula dove si lavoravano vari materiali, tra cui il marmo. Mi invitò a scolpire porgendomi un piccolo sasso, che probabilmente era lì da 30 anni, infatti era tutto nero; il primo colpo che assestai fece saltare via una scheggia dalla superficie svelandomi il cristallo all’interno, bellissimo, bianchissimo; mi innamorai a prima vista di quel materiale. Dopo un paio di mesi avevo terminato la mia prima scultura e quando il professore la vide mi disse: “Tu da grande farai lo scultore!”.
Indubbiamente, basta scorrere la sua biografia ricca di successi e riconoscimenti. In tutte queste tappe, da New York a Mosca, ce n’è qualcuna che ricorda in modo particolare?
Ricordo con grande piacere sia la mostra a New York che quella a San Pietroburgo; in particolare in quest’ultima mi colpì la messa in opera del mio primo evento, in quanto si trattava di mettere in acqua una barca di marmo che trasportava delle persone. Una performance che coinvolgeva anche la popolazione; arrivarono tantissimi spettatori e anche moltissimi giornalisti da tutto il Paese e lì capii come una forma d’arte con della dialettica abbia la capacità di comunicare con tante persone. La ricezione del pubblico a Mosca e a San Pietroburgo fu eccezionale, ricordo che passai in tutti i telegiornali e quotidiani nazionali più importanti. Passai due giorni interi a fare interviste con una fila interminabile di giornalisti; questa risposta, impensabile in Italia, mi colpì in maniera molto forte.
Ha parlato di questa barca di marmo, che mi aveva già colpito, è un qualcosa che pare sovvertire le leggi della fisica.
È una sorta di simbolo: far galleggiare la pietra, il marmo, appare impensabile. L’opera non è, quindi, più solo una scultura, ma entra nella dimensione di una barca che può galleggiare, si può armare di un motore e andare per mare. Diventa un’esperienza che è possibile vivere in prima persona, salendoci sopra.
Fra le tante cose che la riguardano, è stato anche il tema di una tesi di laurea all’Università di Torino. Una bella soddisfazione, se lo aspettava?
In effetti è successo anche altre due volte, e sono rimasto piacevolmente sorpreso, così come non avrei mai immaginato di finire su un libro di testo per le scuole medie; non pensavo si potesse mettere assieme un lavoro così approfondito sulla mia attività. A volte si fanno cose che appaiono normali all’autore, e per questo riscuotono un inaspettato successo per chi si trova a viverlo in prima persona. Quando inizio una scultura non penso di fare qualcosa di diverso da quello che fanno tutti quando si alzano la mattina, per me questa è normalità. Quando ci sono avvenimenti come questi di cui stiamo parlando, si comprende invece l’impatto che si può avere sugli altri trasmettendo la propria arte.
Parlando di materiali, ha delle preferenze? Il marmo di Carrara ad esempio?
Io sono legato al marmo bianco e quasi tutte le sculture che ho realizzato sono costruite con questo materiale. Il marmo è spesso uno strumento che può essere trasformato in altri materiali, dal polistirolo alla gomma. Il marmo di Carrara ha la caratteristica di essere particolarmente compatto e puro, variando dal bianco assoluto alle venature, è come un foglio di carta bianca su cui lo scultore può imprimere le proprie idee. Ovviamente tutti i marmi sono differenti, anche a Carrara ogni cava ha le sue caratteristiche; certamente la scelta del materiale è molto importante, ogni settimana infatti vado a Carrara a scegliere i materiali che poi vengono portati a Torino.
Venendo alla mostra all’interno dell’aeroporto di Malpensa, quando le hanno proposto la location, diversa dal classico museo, cosa ha pensato?
Se gli artisti potessero scegliere dove esporre le proprie opere, probabilmente tutti direbbero il MOMA o posti del genere, ma sono le proposte ad arrivarci. Quella dell’aeroporto è sicuramente una situazione difficile, perché l’opera possa essere percepita e letta correttamente; ha necessità di un proprio spazio, come potrebbe essere una chiesa, ad esempio. C’è bisogno di una sorta di atto di fede per riconoscere un’opera d’arte, di concentrazione, di attenzione, caratteristiche tipiche di un museo che ha le condizioni perfette per estraniare lo spettatore e dirigerlo verso l’opera. Malpensa è esattamente l’opposto, perché si tratta di una zona di passaggio che generalmente raccoglie la fretta e il nervosismo delle persone, non invoglia a fermarsi per ammirare un’opera d’arte. Ero quindi molto curioso di vedere la risposta del pubblico a questa sfida, e il termometro di tutto questo ce lo danno i social, tramite cui si può capire quante persone commentano, apprezzano, fotografano. E ho scoperto così il successo che ha avuto: devo dire che il contesto è perfetto per una mostra di questo tipo, un luogo scuro, buio, con una luce teatrale che mette in evidenza le opere al 200%.
Il titolo Monumentum, che richiama questo legame tra passato e presente, come è nato?
Il titolo è stato scelto da Matteo Pacini, curatore della mostra, che ha raccolto le idee e assemblato il progetto; una scelta che trovo perfetta perché mette lo spettatore di fronte al concetto di scultura monumentale. Le opere sono tutte reinterpretazioni della storia dell’arte classica, che noi tutti conosciamo. Il fatto di trasformare queste opere antiche in una declinazione contemporanea ha creato un passaggio tra la dimensione originale e la nostra. Penso che colpisca il fatto che questi idoli del passato non sono poi così distanti da noi, i corpi sono gli stessi, l’idea di bellezza è qualcosa di universale che ha attraversato i secoli.
Magari qualche purista integralista troverà da ridire, ma ho trovato le rivisitazioni con tatuaggi e pigmenti, assolutamente geniale, moderna, veramente ben riuscita.
È un concetto semplice, ma se le dosi di antico e contemporaneo sono corrette, l’opera funziona. È il contrasto che alla fine genera energia e attrae lo spettatore; le sculture sono poi bellissime, tecnicamente perfette, molto difficile trovare oggi opere in marmo di questo livello. Scolpisco da quando ho 16 anni e da allora ho sempre cercato la perfezione. Ricordo sempre che è importante l’idea, ma poniamo l’attenzione anche sulle opere, che restano poi vive nel tempo.
C’è un’opera, fra quelle esposte, cui è particolarmente legato?
Sicuramente il Laocoonte, una scultura fortemente simbolica e drammatica, ma in assoluto un’opera d’arte della storia classica. Metto sempre quest’opera al centro delle mie esposizioni, perché trovo che l’espressione del viso e le linee del corpo siano futuristiche rispetto alla realtà.
Progetti futuri?
Ad ottobre, inauguro una mostra a Baku, in Azerbaijan. Sono molto contento di questo progetto e sto giusto ultimando le sculture, che a breve verranno imballate e spedite, pronte per essere esposte.
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