La prima azione delle BR
Il 17 settembre 1970, dopo il volantinaggio nelle fabbriche, il ciclostile, la creazione di gruppi, detti Brigate, che agivano all’interno delle fabbriche, specialmente quelle in ristrutturazione dove il rapporto tra operai e gruppi dirigenti e imprenditori era conflittuale, le Brigate Rosse passarono all’azione.
Dalla seconda metà degli Anni Sessanta, dalla fine del boom economico, l’Italia stava vivendo un periodo di tensione e instabilità sociale. Esistevano forti tensioni tra il governo e i gruppi della sinistra radicale che cercavano di portare avanti una rivoluzione che in molti avrebbero voluto sociale ma altri la pretendevano armata. Il movimento del Sessantotto contribuì non poco a far salire il livello di tensione e la Strage di Piazza Fontana fu uno dei fattori scatenanti nel portare alcuni gruppi estremisti verso la decisione di passare ad un’azione più incisiva.
Vi sarebbe molto da dire (ma prima ancora da studiare) su quegli anni definiti “formidabili” in un libro abbastanza auto celebrativo di Mario Capanna ma che hanno lasciato una scia di sangue, di odio, di battaglie ideologiche ancora non sopite. Basti pensare a come vengono celebrati, da ciascuna delle parti, gli anniversari di stragi e attentati e le polemiche per la situazione di terroristi condannati in Italia che hanno trovato riparo in Francia.
Difficile avere certezze in ordine alla data di nascita ufficiale del più noto gruppo terrorista italiano che aveva al suo interno più anime che si riconoscevano nel marxismo puro o trovavano ispirazione nei Vietcong, in Che Guevara, in Mao o, addirittura, traevano la loro origine nella resistenza che ritenevano fosse stata tradita e i partigiani disarmati prima della liberazione.
In ogni caso erano tutti concordi negli strumenti da utilizzare e iniziarono a muovere la loro azione mettendo alla base di questa lo slogan “Colpirne uno per educarne cento”. I loro obiettivi, oltre a, naturalmente, abbattere lo Stato borghese, erano cacciare gli occupanti statunitensi e imporre l’espulsione dell’Italia dalla NATO.
In un momento in cui il contraltare di quest’ultima era il Patto di Varsavia che aveva da poco represso i movimenti di Praga nel sangue, potrebbe sembrare un controsenso. Ma l’ideologia della sinistra, specialmente quella extraparlamentare che non si riconosceva nella guida del Partito Comunista, era granitica.
Non era neppure bastata l’approvazione dello Statuto dei Lavoratori il 20 maggio 1970. Era stato individuato il nemico da combattere e – i primi ad essere vittima del neonato gruppo che aveva raccolto persone uscite da contesti diversi quali l’Università di Trento e, il Collettivo Politico Metropolitano (Curcio e Cagol), dalla federazione giovanile del PCI di Reggio Emilia (Franceschini, Gallinari e Ognibene) – passò all’azione e individuò i primi possibili obiettivi nei dirigenti delle fabbriche visti come una sorta di braccio armato del padronato.
Il 17 settembre, in via Moretto da Brescia a Milano furono fatte esplodere delle taniche di benzina nel box dell’autovettura di Giuseppe Leoni, direttore del personale alla Sit-Siemens. Fu la prima azione rivendicata dalle BR.
Successivamente apparvero alla Pirelli dei volantini con una lista di dirigenti da colpire. Il 27 novembre, venne bruciata l’auto di Ermanno Pellegrini, capo dei servizi di vigilanza dello stabilimento. Quando la direzione dell’azienda reagì licenziando un operaio molto verosimilmente estraneo, le BR incendiarono l’auto al capo del personale dell’azienda. Erano azioni che avrebbero dovuto scrollare dal torpore una classe operaia che si sarebbe dovuta unire a studenti, lavoratori e proletari per dare vita alla rivoluzione.
Le prime vittime giunsero il 17 giugno 1974 nell’assalto alla sede del MSI o di Padova, un agguato che vide la morte di Giuseppe Mazzola, carabiniere in congedo, e Graziano Giralucci, agente di commercio, iscritti al movimento.
Da lì l’avvio di una vicenda che dal sequestro Sossi al delitto Moro ha caratterizzato non solo gli Anni Settanta e che è ancora aperta.
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