La scuola nella rivoluzione digitale
Iniziamo da alcuni dati di fatto obiettivi e difficilmente confutabili. Il primo è che la rivoluzione digitale è una strada senza ritorno e il percorso verso un mondo digitale non si fermerà. Saremo sempre più connessi e dipendenti dai nostri device.
Punto secondo: sono scomparsi già molti lavori, sostituiti dalla tecnologia digitale e altri sono destinati anch’essi all’estinzione o a un profondo cambiamento. Dattilografe e stenografe non esistono più così come le centraliniste e i fotografi nei laboratori. Sono già quasi del tutto scomparsi gli impiegati di sportello nelle banche e, non stupiamoci, potrebbero scomparire anche i consulenti finanziari e gli assicuratori così come gli agenti di viaggio.
Possono essere sostituiti da programmi di intelligenza artificiale. Anche gli avvocati non dormono sonni tranquilli. Ma non preoccupiamoci; nuovi lavori nasceranno così come sono nati gli sviluppatori web, i web designers, i social media manager, gli influencer e i TikToker.
Lasciamo da parte per un attimo da parte alcune “professioni” estemporanee che sono basate sull’estro e l’intuizione (e la fortuna) dei singoli, per occuparci di figure professionali che devono essere preparate e che dovranno anche costantemente aggiornarsi. Sono in sostanza tutti i lavori del futuro e la scuola è il primo settore a dover essere interessato. La rete creerà nuove professioni interessanti ma si impongono concrete riflessioni. Riflessioni indispensabili anche perché il fin troppo veloce progresso della tecnologia pone un concreto problema di obsolescenza del fattore uomo nel mondo del lavoro. Ergo: le tue competenze digitali oggi, saranno ancora valide tra pochi anni quando nuovi strumenti digitali prenderanno il posto di quelli attuali?
Inserire nelle scuole materie nuove ed eliminare quelle inutili? Ma chi deciderà quali e come? Tra i tanti spunti online, anche provocatori, troviamo chi propone di inserire tra le materie obbligatorie l’educazione sessuale, l’educazione finanziaria, l’alfabetizzazione informatica, l’educazione emotiva e sociale e, infine, pensiero critico e problem solving.
Teoricamente (e istintivamente) tutto bello ma, a parte l’educazione sessuale, il resto sembra uno strano coacervo di concetti misti, scollegati ed illogici. Tra i commenti abbiamo chi si dice d’accordo nell’eliminare lo studio degli inutili Sumeri ed Etruschi per dedicarsi ai linguaggi informatici e chi rivendica la prevalenza del latino. Tutte legittime opinioni, ma sarebbe opportuno chiedersi il livello di preparazione e competenza di chi si esprime, ricordandoci le parole di Umberto Eco su chi è libero di scrivere sui social.
L’educazione finanziaria impone importanti conoscenze basiche di matematica; l’alfabetizzazione informatica dovrebbe avere alla base una mente in grado di comprendere e non divulgare le notizie false e gli algoritmi che le governano. L’educazione emotiva aprirebbe l’ingresso nelle scuole a decine di psicologi che insegnerebbero ad ogni studente come affrontare i problemi che forse non avranno mai e, comunque, stride per come viene abbinata all’educazione sociale, argomento legato alla conoscenza della Costituzione e almeno di un po’ di diritto penale. Il problem solving è utilissimo in azienda, ma collegarlo al pensiero critico fa venire in mente Platone e Seneca, che ne sono le basi. Riuscirebbero gli attuali studenti ad assimilare tutto ciò?
In ogni caso il sistema scuola va profondamente rivisto, riflettendo le necessità che impone il dover preparare gli studenti ad un mondo del lavoro sempre più tecnologico e specializzato e la necessaria conoscenza di concetti di base che non sono solo la storia degli egiziani e la geografia, ma le vere e proprie basi del sapere.
Meno ore di storia per studiare i sistemi informatici? Niente filosofia sostituita dal funzionamento delle banche? Oppure una riforma vera che, magari, riveda anche orari e modalità di frequenza oltre ad un progressivo inserimento nel mondo del lavoro?
La nostra scuola infine, non dimentichiamolo, è ancora fondata su modalità di frequenza ideati per quando i ragazzi, o almeno molti di loro, lavoravano con le famiglie nei campi. E, forse, è proprio da qui che potremmo ripartire.
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