Un secolo di Rhapsody in Blue

Il 7 gennaio 1924, George Gershwin terminava di comporre la sua Rapsodia in blu.

Per favore, prima di continuare la lettura potete ascoltarla? Non ha senso parlare di musica senza il suono. Esattamente cento anni fa nasceva un capolavoro senza tempo e anche solo leggerne senza il suono del clarinetto solista che apre, è perdere l’essenza di un brano che è ancora nella storia della musica.

La melodia eseguita dal clarinetto è uno degli elementi più riconoscibili dell’opera e stabilisce un tono distintivo fin dall’inizio. Questo clarinetto solista è parte integrante della introduzione e contribuisce a creare un’atmosfera suggestiva che prelude alla fusione unica di jazz e musica classica che caratterizza l’intera composizione.

Dopo l’assolo iniziale si potrebbe pensare che è il pianoforte il vero protagonista del brano che dura dai 15 ai 18 minuti a seconda delle versioni, ma non è così. La “Rapsodia in Blu” è caratterizzata dalla sua fusione di stili, e oltre al clarinetto, include significative parti pianistiche (spesso eseguite dallo stesso Gershwin) e altri soli orchestrali. L’opera è strutturata in modo da permettere momenti di improvvisazione, soprattutto nei brani solistici, che danno spazio a diversi strumenti e stili musicali. È jazz allo stato puro, libertà di espressione ed estro dei singoli esecutori, ma non si esce da canoni anche classici.

Gershwin ha scritto la “Rapsodia in Blu” durante un periodo di effervescenza culturale noto come il “Rinascimento di Harlem”. Gli anni ’20 furono caratterizzati da un fervore creativo e da una rivoluzione sociale e musicale negli Stati Uniti. La “Rapsodia in Blu” è un riflesso di questo periodo di cambiamento, incorporando elementi della tradizione musicale afroamericana, del jazz e della musica classica.

Erano gli anni precedenti la Grande crisi del 1929 e le band di Jazz erano le protagoniste degli spettacoli nelle grandi città della costa orientale degli States mentre Hollywood iniziava ad essere la mecca del cinema.

Chaplin aveva lanciato tre anni prima “Il monello” e stava preparando “La febbre dell’Oro;” Francis Scott Fitzgerald scriveva “Il grande Gatsby” e John Dillinger iniziava la sua carriera di rapinatore. Eravamo in pieno proibizionismo e le gang di distillatori clandestini rifornivano tutti gli Speak easy di alcoolici di contrabbando ponendo le basi per l’avvento di bande come quella di Al Capone e, più in generale delle mafie italoamericane che fecero grandi fortune con l’alcool. Ma erano anche i Roaring twenties e, insieme alla tromba di Luis Armstrong, il Charleston, la Rapsodia di Gershwin ne è una colonna sonora portante.

Il pezzo si distingue per la sua innovazione e audacia. Gershwin, già celebre per i suoi successi di Broadway, sfidò i confini convenzionali combinando la complessità armonica della musica classica con il ritmo pulsante e improvvisato del jazz. Questa sinergia unica tra due generi musicali apparentemente distanti ha aperto nuove possibilità creative e ha contribuito a definire uno stile americano distintivo.

Il jazz, in particolare, svolge un ruolo chiave nella Rapsodia. Come detto, l’opera si apre con un celebre clarinetto solista, eseguito da Paul Whiteman, il direttore d’orchestra che commissionò la composizione. La melodia del clarinetto, con la sua espressione languida e sensuale, cattura l’essenza del jazz blues e stabilisce il tono per il resto della composizione.

Il seguito si distingue anche per l’uso dell’improvvisazione, una caratteristica intrinseca al linguaggio jazzistico. Sebbene gran parte dell’opera sia composta con scrupolosità, Gershwin incorpora sezioni in cui i solisti possono improvvisare, un elemento chiave nel jazz.

Anche oggi il brano è eseguito e gode di una popolarità duratura e continua a ispirare musicisti di tutto il mondo ed è ancora usata in film e pubblicità.

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