Cronache dai Palazzi

L’Italia si è astenuta dalla riconferma di Ursula von der Layen come nuovo presidente bis della Commissione europea. Voto contrario, inoltre, a proposito delle nomine di António Costa e Kaja Kallas rispettivamente come presidente del Consiglio europeo a Alto rappresentante per la politica estera dell’Unione.

Nei giorni scorsi la premier Giorgia Meloni ha manifestato una certa irritazione per l’esclusione dell’Italia dai negoziati. Le tre maggiori famiglie politiche Socialisti, Liberali e Popolari – la cosiddetta “maggioranza Ursula” – si sarebbero incontrate il 17 giugno accordandosi sulle nomine von der Leyen, Costa e Kallas. Un incontro informale per discutere le nomine ai vertici delle istituzioni europee in cui l’Italia non sarebbe stata coinvolta. Al momento l’accordo a proposito dei tre nomi suddetti non avrebbe ricevuto il via libera di Italia, Ungheria e Slovacchia.

Meloni ha affermato di non condividere le suddette nomine “nel merito e nel metodo”. Nello specifico “nel merito in quanto non è stato nemmeno vagamente anticipato in una discussione quale debba essere il mandato da dare a chi ricopre questi incarichi, a seguito di elezioni nelle quali i cittadini europei hanno chiesto chiaramente una linea nuova e diversa per l’Unione europea; nel metodo perché la logica che si è voluta imporre di maggioranza e opposizione secondo me non ha nessun senso nei massimi incarichi delle istituzioni europee perché è una logica che si sviluppa nel Parlamento”, ha ammonito Meloni ribadendo la sua mancanza di sostegno alla proposta della triade von der Leyen, Costa e Kallas “per rispetto dei cittadini europei e delle indicazioni che da quei cittadini sono arrivate con le elezioni”. Riguardo alla presidenza della Commissione Ue il problema non è Ursula von der Leyen ma le politiche che si vorrebbero attuare, ha puntualizzato Giorgia Meloni.

Dopo la decisione della maggioranza qualificata rafforzata necessaria all’interno del Consiglio europeo ora spetterà comunque al Parlamento europeo (18 luglio) decretare il verdetto finale rispetto alla nomina di Ursula von der Leyen come presidente della Commissione europea. Meloni ha a sua volta sottolineato di continuare a “lavorare per dare finalmente all’Italia il peso che le compete in Europa”, auspicando una vicepresidenza e un commissario economico di peso per il nostro Paese.

Tra gli altri temi all’ordine del giorno la definizione dell’agenda strategica per i prossimi anni, in primo piano la materia migratoria e la competitività, la difesa comune e l’unione dei capitali; argomenti a proposito dei quali la premier Meloni ha di certo dimostrato fino ad oggi un atteggiamento costruttivo, come del riconosciuto dalle istituzioni europee in definitiva preoccupate non dalla personalità specifica e dalle decisioni della premier italiana, bensì dal nuovo scenario prospettato dall’esito delle ultime elezioni europee.

Rispondendo ai giornalisti la premier Giorgia Meloni ha inoltre puntualizzato di non temere l’isolamento. “Si è decisamente meno isolati quando si ha la capacità di esercitare una leadership”, invece di prediligere “l’accodamento” con la speranza di ottenere qualche contentino. “Penso che questo sia il ruolo che spetta all’Italia”, ha affermato Giorgia Meloni.

Impugnando i trattati la premier italiana sottolinea che le istituzioni dell’Unione “sono state pensate in una logica neutrale, non di maggioranza e opposizione” e ribadisce di non condividere l’esclusione dell’Italia dalla scelta sugli incarichi di vertice; in sostanza “la logica del consenso viene scavalcata da quella dei caminetti, dove una parte decide per tutti”, invece di tener conto di “uno scenario nuovo”. In definitiva Meloni definisce il sodalizio tra Ppe, Pse e Liberali una “maggioranza fragile”, cementati dal profilo di Ursula von der Leyen: “Una conventio ad excludendum che a nome del governo italiano non intendo condividere”, ha affermato Meloni anche di fronte all’Aula di Montecitorio prima di recarsi a Bruxelles. A Palazzo Madama, invece, ha nominato chiaramente la “presunta maggioranza” che terrebbe insieme Scholz, Sanchez, Tusk condannando nel contempo il “precedente molto discutibile” di un accordo che sarebbe stato siglato ben prima del voto europeo. Una sorta di “mancanza di rispetto” che avrebbe infastidito la premier italiana. E come se non bastasse, riferendosi in particolare alle parole di Conte e Schlein, Meloni aggiunge: “È molto grave sostenere ‘presidente Meloni, voti pacchetto e vada a trattare per l’Italia’. Quindi quel che spetta all’Italia non è in ragione del fatto che siamo un Paese fondatore, quello con il governo più solido? No, dipende dal fatto che l’Italia dica sì o no a quelli che alcuni hanno deciso. Signori, non è la mia idea di Europa”, ha affermato a chiare lettere la premier Meloni rivolgendosi ai senatori del Parlamento italiano. Ed ancora: “Ci sono partite sulle quali si dovrebbe lavorare insieme…Grave che rappresentanti del popolo italiano dicano agli omologhi Ue di non trattare con Meloni…I conti in Patria non si saldano usando le istituzioni, ci facciamo molto male… La campagna elettorale è finita”, ammonisce Meloni. Una guerra verbale cruenta in cui Meloni ribadisce che le opposizioni non tengono conto che “solo in Italia il 53% degli eletti è espressione delle forze di governo” e, nel contempo, la accusano “di non fare abbastanza la cheerleader” in sede europea con i vari big dell’Unione.

“Non si può prescindere dall’Italia” è il sostegno del Colle. Per quanto riguarda la nuova governance della Ue, il Capo dello Stato Sergio Mattarella auspica in ogni modo un buon compromesso tra Roma e Bruxelles pur non entrando nelle dinamiche politiche europee né, tantomeno, esprimendo un parere sui nomi oggetto di contesa ma, nel contempo, riconoscendo le difficoltà del negoziato in corso e la necessità di non far confusione tra interesse nazionale e interesse del gruppo parlamentare europeo presieduto tra l’altro dalla premier italiana in carica. Un punto di incontro di certo va trovato, negoziando fino al raggiungimento di una conclusione plausibile.

Anche all’interno della maggioranza di governo si respira in effetti la spaccatura; Forza Italia ha votato per Ursula von der Layen e Antonio Tajani ha ribadito che l’Italia non è a rischio isolamento in Europa, c’è bensì ampio spazio per una valida trattativa che tenga conto delle richieste dell’Italia. Nei prossimi giorni, fino al 18 luglio – data in cui il Parlamento europeo dovrà formulare la decisione finale -, Ursula von der Leyen contatterà i vari gruppi politici in sede europea spiegando le proprie politiche per i prossimi cinque anni, e sicuramente negozierà anche con la premier italiana Giorgia Meloni – il dialogo tra le due leader non si è mai interrotto – in quanto il problema non è ‘Ursula’, come ha precisato la presidente del Consiglio, ma per l’appunto le linee politiche che si intende attuare. In ballo anche il Pnrr e l’ennesima rata che dovrebbe arrivare all’Italia. In sostanza la discussione ruota intorno ad una vicepresidenza di peso per il nostro Paese e la possibilità di una delega ad hoc per la difesa, non a caso circola il nome di Guido Crosetto. Per quanto riguarda la Commissione europea Meloni ha infatti espresso la sua preferenza riguardo ad un nome politico e di sua fiducia, invece di un tecnico.

Sul fronte nazionale il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha firmato il cosiddetto disegno di legge Calderoli sull’applicazione dell’Autonomia differenziata, che dalla pubblicazione in Gazzetta ufficiale diventerà legge. La firma è arrivata a soli sei giorni dall’approvazione definitiva alla Camera. Promulgando la riforma Calderoli il Capo dello Stato ha aperto la strada all’applicazione di norme procedurali che non effettueranno alcun trasferimento automatico di funzioni, i cambiamenti potranno bensì avvenire solo in seguito a determinate richieste da parte delle Regioni e in base a specifiche intese che dovranno essere approvate attraverso nuove leggi. Il rapporto tra Regione e governo diventa però diretto e ogni singola Regione potrà chiedere all’esecutivo l’affidamento di alcune competenze attualmente attribuite allo Stato e, nel contempo, ricevere le risorse finanziarie necessarie per gestire le suddette competenze in autonomia.

Il ddl Calderoli non modifica la Costituzione: è una legge ordinaria composta da 11 articoli che definiscono, nel dettaglio, le procedure legislative e amministrative per poter attuare la precedente riforma costituzionale del Titolo V voluta nel 2001 dal centrosinistra. All’articolo 116 comma 3 venne per l’appunto sancito che le Regioni potessero richiedere “ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia”. Le materie che potranno essere trasferite alle Regioni sono al massimo 23 tra cui tutela della Salute, Istruzione, Sport, Ambiente, Energia, Trasporti, Cultura e commercio Estero. Il trasferimento delle competenze non avverrà in maniera automatica in quanto l’intesa dovrà essere sottoposta al parere preventivo del governo e, successivamente, del Parlamento che dovrà approvarla a maggioranza assoluta ossia il 50% più uno di deputati e senatori. Dal Colle si rende noto, infatti, che si tratta di “norme soltanto procedurali che non effettuano alcun trasferimento di funzioni, che potrà avvenire in base a richieste delle Regioni con intese da approvare con nuove leggi”.

La maggioranza ha inoltre messo nero su bianco che per raggiungere l’intesa la singola Regione dovrà garantire i cosiddetti Lep, livelli essenziali delle prestazioni. Governo e Regione avranno tempo 5 mesi per raggiungere un’intesa e quest’ultima potrà durare al massimo 10 anni, in seguito ai quali potrà anche essere rinnovata, oppure terminare in anticipo con un preavviso di almeno 12 mesi.

In definitiva non è sancita alcuna autonomia fiscale totale, anche se le Regioni potranno gestire con maggiore autonomia i fondi attualmente destinati ad esse. In questo contesto il governo ha di fatto previsto nella norma un riassetto del fondo di perequazione, attualmente incapiente, con l’obiettivo di riequilibrare le asimmetrie territoriali. A proposito di Lep Palazzo Chigi ha istituito una commissione ad hoc presieduta dal costituzionalista Sabino Cassese, per definire nello specifico quali debbano essere i Livelli essenziali delle prestazioni e di quante risorse necessitano. L’articolo 4 del ddl Calderoli specifica che l’effettivo trasferimento delle funzioni alla singola Regione potrà avvenire solo in seguito alla determinazione dei Lep e delle risorse necessarie per essere attuati. Dall’entrata in vigore del disegno di legge il governo ha 24 mesi per varare uno o più decreti legislativi per definire Lep e risorse congruenti.

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