Odore e sapore delle notizie

Nelle sue Filastrocche in cielo e in terra, Gianni Rodari descriveva gli odori e i colori dei mestieri passando dalla noce moscata dei droghieri (li ricordate? Sembra siano una specie ormai estinta) alla vernice degli imbianchini, che erano anche di sette colori e continuava con le tute blu degli operai.

Mestieri e storie di un tempo andato. Il grande scrittore per bambini parlava anche di fornai contadini, altre immagini di un passato romantico che la rivoluzione tecnologica, e poi quella digitale, hanno scalzato quasi con violenza, senza chiedere il permesso né presentarsi.

Una volta anche le notizie avevano un odore; e perfino un sapore. Prima di tutto le leggevamo il giorno dopo. Tolte quelle che passavano ai telegiornali e giornali radio, ad orari prestabiliti e non modificabili, dovevamo attendere il giorno dopo e recarci in edicola, o al bar, per leggere quello che era avvenuto ieri. I giornali avevano l’odore dell’inchiostro e sembrava di sentire il suono delle rotative sulle quali erano solo poche ore prima.

“È la stampa, bellezza.” diceva Humphrey Bogart nel film “L’ultima minaccia” mentre partivano le rotative per un’edizione scioccante. Ed era una stampa diversa rispetto ad oggi. Aveva quell’odore non solo di carta e inchiostro, ma anche quello del caffè che, solitamente, accompagnava la lettura del quotidiano del mattino, magari insieme a quello di una brioche o di un cornetto, a seconda del cambio di latitudine.

Leggere domani le notizie di oggi sembra inconcepibile. Da quando abbiamo in mano uno strumento iper rapido, intuitivo, di semplice uso che ci connette con tutti i siti web del mondo non ce la possiamo più fare. Non sappiamo più attendere.

È giusto; è corretto ed inevitabile. L’informazione immediata e diffusa è una delle più grandi conquiste dell’umanità e internet ci ha permesso di averla o, perlomeno, è giunta in tutti i paesi democratici dove non è il regime che deve filtrare e plasmare le notizie a proprio uso e consumo se non addirittura censurarle.

Tutto, probabilmente, ha iniziato a cambiare dalla prima Guerra del golfo, quando gli inviati in Iraq e Kuwait entravano in diretta nelle nostre case sui teleschermi di TV già avanzate rispetto ai vecchi tubi catodici. Ma il momento in cui ci siamo resi conto che il modo di fare informazione era radicalmente cambiato, è stato l’undici settembre, quando le immagini del crollo delle Twin Towers a New York, pur con le connessioni e gli strumenti dell’epoca, è giunto in tutte le case in tempo reale.

Oggi possiamo sapere praticamente tutto e di tutto nel momento esatto in cui avviene e, se non ci piace o non ci soddisfa, con pochi click atterriamo su altre pagine per cercare altre versioni della notizia o, magari, approfondimenti.

Se il Corriere della sera non diffonde abbastanza particolari di qualche argomento posso cercarli non solo su La Repubblica o La Stampa, ma addirittura sul Times, il Washington Post e Le Figaro. Aggiungiamo a questi nomi risonanti le centinaia e centinaia testate più o meno locali, più o meno faziose, o addirittura di controinformazione o disinformazione dichiarata ed abbiamo un quadro abbastanza completo di come il pubblico non sia più in grado di aspettare il giorno dopo per recarsi in edicola e scambiare le prime parole con un edicolante dalla faccia simpatica e amichevole.

Ci abbiamo guadagnato in completezza dell’informazione (sempre che si sia in grado di individuare quella corretta), di rapidità nella circolazione delle notizie, di numero di fonti di diffusione e di opinioni. Ma ci abbiamo perso in momenti di attesa e trepidazione; di caffè e colazioni condivise per parlare con un amico dopo esserci scambiati i rispettivi quotidiani.

Quei quotidiani erano inoltre usati per incartare frutta e altro nei mercati di quartiere prima che le norme sull’igiene mettessero al bando questo uso che, forse, era anche una forma embrionale di riciclo ulteriore della carta, a sua volta già riciclata, su cui erano stampate le notizie.

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