Camera di Consiglio
IL RICONOSCIMENTO DEL CONVIVENTE DI FATTO NELL’IMPRESA FAMILIARE – L’impresa familiare costituisce una forma particolare di impresa in cui collaborano soltanto i familiari. Secondo il Codice Civile, ex art. 230 bis, comma 3, per “familiari” andavano intesi “il coniuge, i parenti entro il terzo grado, gli affini entro il secondo”.
Con una recentissima sentenza la Corte Costituzionale ha definitivamente dichiarato l’illegittimità costituzionale del predetto comma nella parte in cui non prevede come “familiare” anche il “convivente di fatto”. La decisione trae origine dal ricorso proposto da una donna in seno ad un giudizio di accertamento dell’esistenza di un’impresa familiare, al fine di richiedere la liquidazione della propria quota. In particolare, la ricorrente deduceva di aver convissuto con il de cuius per 12 anni e di aver prestato, nel contempo, servizio in maniera continuativa presso l’impresa familiare dello stesso (nella specie, si trattava di una cantina per la produzione del vino, con annesso avviamento di un’attività di ricezione turistica) per tutta la durata della convivenza.
Il Tribunale, tuttavia, rigettava la richiesta alla luce del fatto che, ex lege, il convivente non poteva essere considerato un “familiare”. Anche in sede d’Appello la richiesta non veniva accolta, poiché la convivenza era nata prima della cd Legge Cirinnà del 2016, disciplinante le unioni civili e le unioni di fatto. Veniva effettuato ricorso per Cassazione e la Suprema Corte richiedeva l’intervento delle Sezioni Unite al fine di chiarire se l’art. 230 bis, comma terzo del Codice civile potesse essere evolutivamente interpretato, considerando il mutamento dei costumi nonché della giurisprudenza costituzionale e della legislazione nazionale in materia di unioni civili tra persone dello stesso sesso, oltre alla Convenzione Europea di Diritti dell’Uomo che, nell’art. 8, prevedere l’applicabilità della disciplina dell’impresa familiare anche al convivente more uxorio, allorquando la convivenza di fatto sia caratterizzata da stabilità.
La questione, dunque, veniva portata di fronte alla Corte Costituzionale che faceva proprie le argomentazioni delle Sezioni Unite, dando ampia rilevanza tramite un lungo excursus storico alle questioni di diritto nazionale, transnazionale ed eurounitario, oltre al mutamento degli usi e costumi nel tempo. Tra i vari motivi, si segnala “le convivenze di fatto, al pari delle unioni civili, appartengono alle formazioni sociali di cui all’art. 2 Cost., all’interno delle quali l’individuo afferma e sviluppa la propria personalità”, uno dei principi portanti dell’Ordinamento.
Alla luce di ciò, il comma oggetto di discussione veniva dichiarato incostituzionale, anche sulla base del fatto che “la tutela del lavoro rappresenta un mezzo essenziale per garantire la dignità di ciascun individuo, sia come singolo che come parte integrante della società, in particolare della famiglia”: è, dunque, irragionevole l’esclusione del convivente di fatto nell’impresa familiare.
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