Camera di Consiglio
LA PROVA DELLO STATUS DI FIGLIO – Il caso in esame trae origine da una richiesta di accertamento della paternità da parte di una donna che assumeva di essere nata da una relazione extraconiugale tra la propria madre ed il padre che non l’aveva riconosciuta, chiedendo, per l’appunto, di essere riconosciuta come sua figlia.
La donna in tenera età era stata adottata da una famiglia amorevole, dopo essere stata affidata ad un orfanotrofio, non riuscendo la madre ad occuparsi di lei da sola. Divenuta maggiorenne, i genitori adottivi l’avevano informata della sua provenienza e dell’identità del padre. L’attrice, dunque, sebbene la vita fosse proseguita serenamente, non aveva mai abbandonato l’idea di trovare le proprie origini e di poter ritrovare una propria identità precisa dal punto di vista biologico. Ella, infatti, decideva di affrontare la dolorosa vicenda giudiziaria che ci occupa dopo aver conosciuto casualmente il proprio fratello biologico.
Il Tribunale, dunque, accoglieva la domanda di accertamento della paternità a seguito di accurata consulenza tecnica d’ufficio, durante la quale veniva accertato il rapporto di paternità con l’uomo indicato dalla stessa come padre “in virtù del grado statistico di compatibilità genetica emerso all’esito degli accertamenti medici effettuati tra le odierne parti in causa, che comprovavano in maniera inequivoca che le stesse erano figlie dello stesso padre”.
Secondo la prova del DNA, dunque, i convenuti fratelli biologici della donna venivano riconosciuti tali e, conseguentemente, il loro padre. I convenuti, tuttavia, contestavano la consulenza e proponevano appello deducendo che il giudice di prime cure avrebbe dovuto optare per la prova che avrebbe potuto garantire il raggiungimento del massimo grado di verità processuale, preferendo la prova più esplicita del test della paternità diretto rispetto a quello più suscettibile di interpretazioni quale era ritenuto il test di fratellanza. La Corte d’Appello rigettava il ricorso e i fratelli ricorrevano per Cassazione. Il ricorso veniva ritenuto inammissibile.
La Suprema Corte, infatti, faceva proprio il ragionamento del Giudice d’Appello rappresentando che “il principio della libertà di prova, sancito […] dall’art. 269, comma 2, c.c., non tollera surrettizie limitazioni, né mediante la fissazione di una gerarchia assiologica tra i mezzi istruttori idonei a dimostrare quella paternità, né, conseguentemente, mediante l’imposizione, al giudice, di una sorta di ordine cronologico nella loro ammissione ed assunzione, avendo, per converso, tutti i mezzi di prova pari valore per espressa disposizione di legge, e risolvendosi una diversa interpretazione in un sostanziale impedimento all’esercizio del diritto di azione in relazione alla tutela di diritti fondamentali attinenti allo status”.
Non essendovi più presunzioni legali per l’accertamento della paternità, tale status può ben essere provato senza limitazioni e con ogni mezzo di prova, senza che si possa imporre al Giudice l’adozione di uno rispetto all’altro, per tutelare al meglio i diritti fondamentali relativi allo “status” medesimo.
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