Saragat, il primo non democristiano
Membro attivo della resistenza, ambasciatore italiano a Parigi, presidente dell’Assemblea costituente, vicepresidente del Consiglio dei Ministri e Ministro degli Affari esteri; il curriculum personale e politico di Giuseppe Saragat era indubbiamente di prim’ordine ma, tuttavia, presentava un difetto non da poco: non era democristiano.
Fin dalla nascita della Repubblica, sia la carica di Presidente del Consiglio sia quella di Presidente della Repubblica erano state appannaggio solo di appartenenti al partito di maggioranza relativa che dominava la scena politica italiana.
Tuttavia, esattamente sessant’anni fa, il 29 dicembre 1964, prestava giuramento quale Presidente della Repubblica l’allora segretario del Partito Socialdemocratico, eletto dopo le dimissioni dovute a motivi di salute del suo predecessore Antonio Segni.
Saragat, leader storico del PSDI, poteva essere considerato l’eterno secondo, il candidato che “non doveva vincere, ma serviva a disturbare gli equilibri”. Già nel 1962, alle precedenti elezioni, era stato un avversario temibile per Antonio Segni. Quel Saragat, appoggiato da socialisti e comunisti, aveva rischiato di rompere il fronte democristiano, riuscendo a spaventare la DC al punto che questa si era rifugiata nell’abbraccio dei voti monarchici e neofascisti pur di eleggere Segni. Una mossa che aveva lasciato strascichi nel fragile equilibrio politico del Paese e che sarebbe stata ripercorsa sette anni dopo per l’elezione di Giovanni Leone.
Nel 1964, lo scenario era ancora più complicato rispetto al 1962. Il Paese viveva il primo esperimento di centrosinistra organico, con i socialisti di Pietro Nenni entrati ufficialmente nel governo guidato da Aldo Moro. Tuttavia, quella che doveva essere una stagione di apertura e modernizzazione si era trasformata in un campo minato. L’ombra lunga del Piano Solo, il fantomatico progetto di golpe, e le tensioni tra riformatori e conservatori avevano reso l’elezione del Presidente della Repubblica una partita dal sapore di resa dei conti.
Saragat partì come candidato dei due partiti socialisti, PSI e PSDI, mentre la DC schierava Giovanni Leone, e il PCI lanciava l’icona della resistenza comunista, Umberto Terracini. Tuttavia, il vero protagonista nelle file democristiane era Amintore Fanfani, eterno leader in cerca di gloria. Con i suoi giochi di sponda e il supporto interno alla DC, Fanfani iniziò a raccogliere voti, mettendo in crisi l’unità del suo partito.
Dopo sette scrutini inconcludenti, i socialisti si astennero, e Pietro Nenni entrò ufficialmente nella corsa come candidato unitario della sinistra. A partire dal tredicesimo scrutinio, Nenni divenne il fulcro della contesa, appoggiato da PSDI e PCI, mentre Fanfani si ritirava.
La situazione sembrava irrisolvibile. Dopo quindici votazioni, anche Giovanni Leone si fece da parte, aprendo la strada a un accordo tra DC e socialdemocratici. Saragat divenne l’unico nome plausibile per evitare un’esplosione definitiva del fragile equilibrio politico italiano.
Fu al ventesimo scrutinio che si consumò il colpo di scena più significativo. Pietro Nenni, che aveva combattuto Saragat per anni, dai tempi della scissione di Palazzo Barberini del 1947, si piegò all’ineluttabilità della situazione. Con un gesto che molti interpretarono come il culmine di una lunga amicizia e rivalità, Nenni chiese ai suoi di votare per Saragat, mettendo fine a quello che era diventato un duello quasi “fratricida”.
Al ventunesimo scrutinio, Giuseppe Saragat venne eletto con 646 voti su 963, la maggioranza più ampia mai vista fino a quel momento in un’elezione presidenziale. L’elezione di Saragat rappresentò un momento storico: il primo Presidente socialista della Repubblica, un uomo che aveva sempre creduto nella democrazia occidentale e nelle sue istituzioni. Per il fragile esperimento del centrosinistra, Saragat era una figura di garanzia, capace di mediare tra le anime riformiste e quelle conservatrici del Paese.
Saragat, con il suo carattere burbero ma ironico, era ben consapevole delle difficoltà che lo attendevano. La sua elezione non fu solo il risultato di un compromesso, ma anche il segnale che la politica italiana, pur con le sue lentezze e i suoi giochi di palazzo, sapeva ancora riconoscere il valore dell’equilibrio e della competenza.
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