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Algoritmi, il Grande Fratello di oggi

Nel 1949, George Orwell pubblicò 1984, un’opera distopica in cui il “Grande Fratello”, una figura onnipresente, esercita un controllo totale sulla vita dei cittadini, sorvegliandoli costantemente e decidendo cosa pensare e come comportarsi. La sua figura, simbolo del potere assoluto, ha da allora alimentato riflessioni sulle minacce alla libertà individuale e alla privacy.

Ma se il Grande Fratello fosse oggi un algoritmo? Un’entità invisibile che ci guida, ci sorveglia e ci indirizza senza che ce ne rendiamo conto? Oggi, il “Grande Fratello” ha assunto una forma diversa: è nascosto nei codici degli algoritmi che determinano cosa vediamo nei nostri feed, le notizie selezionate e quali prodotti ci vengono proposti. In questo mondo digitale, l’algoritmo non è solo uno strumento tecnologico, ma la forza che modella la nostra visione del mondo.

Gli algoritmi, attraverso l’intelligenza artificiale e il machine learning, sono progettati per personalizzare la nostra esperienza online. Ma dietro a questa personalizzazione c’è un obiettivo chiaro: la nostra dipendenza. Ogni scroll, ogni clic, ogni interazione è studiata per mantenerci più a lungo sulla piattaforma, a discapito del nostro tempo e della nostra attenzione. Le scelte che crediamo di fare liberamente sono in realtà influenzate, in modo spesso invisibile, da un sistema che conosce i nostri desideri più profondi e li sfrutta per aumentare i profitti delle aziende tecnologiche.

In questo contesto, la nostra dipendenza da questi algoritmi non è solo una questione di preferenze personali. È una dipendenza strutturale, una trappola nascosta nelle pieghe della tecnologia. L’algoritmo diventa il nostro “grande fratello”, non più visibile, ma ancora onnipresente. E come nel mondo di Orwell, siamo sempre più sorvegliati, non da una figura fisica, ma da un’intelligenza invisibile che predice, influenza e forma le nostre azioni.

A differenza di quello orwelliano, però, noi non siamo costretti a seguire ogni sua direttiva. La vera insidia risiede nel fatto che spesso non siamo consapevoli che le nostre scelte sono manipolate. In un mondo digitale che premia l’attenzione e la risposta immediata, ogni nostra azione online può essere letta, analizzata e utilizzata per mantenerci agganciati, sempre più dipendenti da un sistema che ci conosce meglio di quanto noi stessi conosciamo.

In questo nuovo scenario, la sfida non è solo quella di difendersi dalla sorveglianza, bensì riprendersi il controllo della nostra attenzione e delle nostre decisioni. Come combattere la dipendenza algoritmica? La risposta potrebbe risiedere nel prendere coscienza di come queste tecnologie funzionano e reinventare il nostro rapporto con la tecnologia, tornando a scegliere consapevolmente cosa scorrere e cosa cliccare per migliorare la nostra vita, non per esserne schiavi.

Ma, anche se lo sapessimo? Anche se fossimo consci e consapevoli di tutto quello che accade intorno a noi, di quanto le scelte storiche passate abbiano inciso sul presente, come reagiremmo? Potremmo davvero fare qualcosa per cambiarlo, o ci limiteremmo a scorrere le notizie, a leggere i titoli senza approfondire, vivendo in una sorta di comoda rassegnazione? L’umanità ha sempre avuto la possibilità di riflettere sulle proprie azioni e sulle sue conseguenze, ma troppo spesso preferiamo restare ancorati alla nostra zona di comfort, quella che ci permette di non affrontare la realtà, di non fare domande, di non metterci in gioco. La tecnologia, che ci consente di essere costantemente informati, ha anche il paradosso di escluderci dalla vera consapevolezza.

Viviamo in un’epoca dove tutto è a portata di clic: informazioni, opinioni, fatti, e anche le soluzioni. Ma, paradossalmente, siamo più confusi e disinformati. Perché? Perché ci siamo abituati a un’informazione veloce, che non ci costringe a pensare, a riflettere, a domandare. La comodità del “scrolling” ci dà l’illusione di sapere tutto, mentre in realtà sappiamo ben poco. E mentre il mondo cambia, mentre i conflitti continuano a scorrere pagine di sangue, ci concentriamo su ciò che è più facile, su ciò che ci fa sentire bene, piuttosto che cercare la verità, anche se scomoda.

Quindi, la domanda è: lo vogliamo davvero? Vogliamo essere consci o preferiamo restare in questa nuova “comfort zone digitale”, dove l’illusione di conoscere ci conforta, ma non ci permette di comprendere nulla veramente? Non c’è nulla di più facile che restare passivi spettatori, lasciare che gli algoritmi decidano cosa vediamo e come reagiamo. La domanda, quindi, non è solo cosa sappiamo, ma se siamo disposti a fare qualcosa con ciò che sappiamo. E, ancora più importante, che tipo di persone vogliamo diventare.

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