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Protocollo di Kyoto: un fallimento prevedibile?
Il Protocollo di Kyoto è stato uno di quei grandi momenti della diplomazia internazionale in cui il mondo si ferma, annuisce, firma e poi torna esattamente a fare ciò che faceva prima. Era il 1997 quando i leader globali si sedettero attorno a un tavolo per mettere nero su bianco un impegno: ridurre le emissioni di gas serra e salvare il pianeta. Parole pesanti come il marmo di Carrara, ma con i piedi d’argilla. Perché in politica internazionale, come nella vita, c’è una verità eterna: gli accordi funzionano solo finché non disturbano troppo gli interessi di chi li firma. E Kyoto, ahimè, disturbava parecchio.
Gli Stati Uniti, all’epoca il più grande inquinatore del mondo, si tirarono subito fuori, con un elegante quanto brutale colpo di spugna: “Troppo costoso”, dissero. E poi c’erano Cina e India, all’epoca considerate “paesi in via di sviluppo”, che si guadagnarono l’esonero dagli obblighi più stringenti, anche se già allora bruciavano carbone come una locomotiva del Far West. Il risultato? Un trattato che avrebbe dovuto salvare il mondo, ma che già al momento della firma portava nel ventre il germe del fallimento.
S’intende, non tutto fu vano. Kyoto segnò una svolta, almeno sul piano simbolico. Per la prima volta, il mondo riconobbe ufficialmente che il cambiamento climatico non è una fantasia da salotto, ma un problema reale, urgente e – soprattutto – politico. Ma è altrettanto vero che, tra simboli e risultati concreti, c’è di mezzo l’oceano. E le emissioni globali, anziché scendere, hanno continuato a salire come il livello del mare che tanto preoccupava i firmatari del trattato. Oggi siamo qui, nel 2025, a raccogliere i cocci di quel primo tentativo maldestro. Le temperature continuano a salire, i ghiacciai a sciogliersi, e le conferenze sul clima si moltiplicano come le puntate di una telenovela infinita.
La verità, spiace dirlo, è che Kyoto fallì per una ragione molto semplice: chiedeva sacrifici senza offrire incentivi reali. Chiedeva ai Paesi ricchi di tagliare le emissioni, ma senza toccare il portafoglio dei loro cittadini. E ai Paesi poveri chiedeva di attendere il loro turno nello sviluppo industriale, mentre le loro popolazioni crescevano e reclamavano un posto al tavolo delle potenze.
L’idea di “ridurre” non ha mai fatto breccia in un mondo abituato a pensare in termini di crescita infinita. Perché il vero problema, caro lettore, non è mai stato solo quanto inquiniamo, ma quanto vogliamo continuare a consumare. Kyoto chiedeva ai governi di frenare, ma chi vuole davvero rallentare mentre il resto del mondo accelera? E non dimentichiamo che, all’epoca, era presidente americano Bill Clinton il cui Vice, Al Gore, era considerato uno dei Guru dell’ambientalismo.
Eppure, anche nei fallimenti c’è un seme di speranza. Senza Kyoto, non ci sarebbe stato Parigi. Senza Parigi, non ci sarebbe la presa di coscienza odierna, per quanto tardiva e insufficiente. La strada è lunga, piena di buche e rallentamenti, ma si continua a percorrerla. Il cambiamento climatico è un nemico subdolo: non fa rumore come una guerra, non ha confini visibili, non spara colpi di cannone. Ma uccide, silenziosamente, e non fa prigionieri. Se c’è una lezione che Kyoto ci ha insegnato è questa: le mezze misure non bastano più. E se il mondo vuole davvero salvarsi, deve cominciare ad agire come se il tempo fosse già finito. Perché, forse, lo è davvero.
E poi, naturalmente, c’è stato il risvolto sociale della faccenda. Perché i vuoti lasciati dalla politica sono sempre pronti ad essere riempiti da profeti improvvisati, e da Kyoto in poi è nata un’intera industria della moralità climatica, con tanto di testimonial. È la stessa temperie che ha dato un senso alla vita delle varie Greta Thunberg di turno, pronte a scagliarsi contro il progresso con la veemenza dei monaci medievali che predicavano l’imminente fine del mondo. E poco importa se molte delle loro posizioni oscillano tra il demagogico e l’illogico: oggi, più che avere ragione, conta avere seguaci.
L’ambientalismo, oggi, è il nuovo grido di battaglia che riempie le piazze, dove il bene del pianeta si trasforma in una bandiera da sventolare senza mai chiedersi se davvero possiamo continuare a correre con il piede sul freno. E così, mentre i leader mondiali firmavano trattati inutili come il Protocollo di Kyoto, i “gilet verdi” di Ultima Generazione bloccano le autostrade con l’entusiasmo di chi crede che l’unico modo per salvare il mondo sia rovinare la giornata a chi lavora per mantenerlo in piedi. Perché, si sa, il cambiamento reale comincia sempre con l’arte di rendere la vita degli altri un po’ più difficile.
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