
Bobby Fischer, il re solitario degli scacchi
Oggi, 9 marzo, Bobby Fischer avrebbe compiuto 82 anni. Un uomo geniale, tormentato, imprevedibile. Un personaggio che ha superato i confini del suo sport, trasformando una scacchiera in un campo di battaglia geopolitico e scrivendo una delle pagine più iconiche della Guerra Fredda.
Fischer balzò alle cronache quando, ancora adolescente, dimostrò un talento fuori dal comune. A soli 14 anni vinse il campionato degli Stati Uniti e a 15 divenne il più giovane Grande Maestro della storia. Ma il vero colpo di scena arrivò nel 1972, quando la sua sfida con Boris Spassky, all’epoca campione del mondo, divenne l’incontro simbolo dello scontro tra Stati Uniti e Unione Sovietica. Non era solo una partita di scacchi, era la Guerra Fredda sulla scacchiera.
La sfida del secolo, disputata a Reykjavík, in Islanda, tenne il mondo con il fiato sospeso. Fischer, con le sue pretese e il suo carattere impossibile, arrivò quasi a non presentarsi. Ma quando si sedette davanti a Spassky, il genio fece il resto. Dopo una partenza incerta e un primo clamoroso errore, Fischer dominò l’incontro, infliggendo ai sovietici la loro prima sconfitta mondiale dopo decenni di dominio assoluto. L’America aveva vinto. Il mondo occidentale aveva trovato il suo eroe. E gli scacchi erano diventati, per un momento, più seguiti della politica internazionale.
Quella sfida tra Fischer e Spassky non era solo una partita di scacchi, era la punta dell’iceberg di un confronto molto più grande, una battaglia simbolica tra due superpotenze che si giocavano la supremazia in ogni ambito, dallo spazio alla cultura, dallo sport alla scienza. Per l’Unione Sovietica, gli scacchi erano più di un semplice gioco: erano una dimostrazione dell’intelligenza e della superiorità del sistema comunista, un’arte raffinata in cui i sovietici investivano risorse e addestravano i propri talenti fin da bambini, come un’industria della mente al servizio dell’ideologia. La sconfitta di Spassky, dunque, non fu solo un duro colpo sportivo, ma un’umiliazione politica che rimbalzò nei paesi satellite dell’URSS, dove il successo sovietico era visto come una garanzia di stabilità e di potere. Per molti dissidenti dell’epoca, vedere un americano abbattere un campione sovietico fu un piccolo segnale che il gigante comunista non era invincibile, una crepa nell’armatura di ferro del regime che, decenni dopo, avrebbe mostrato il suo vero punto di rottura.
Ma Fischer non era un uomo facile. Dopo aver conquistato il titolo, sparì. Rifiutò di difenderlo nel 1975, consegnandolo senza giocare al sovietico Anatolij Karpov. Da lì, una discesa sempre più ripida: il ritiro, la paranoia, le dichiarazioni al vetriolo contro l’America, l’esilio, i problemi con la giustizia. Nel 1992 riapparve per un’ultima sfida contro Spassky, ma il mondo era cambiato e Fischer ormai un fantasma di sé stesso.
Dopo la sfida in Jugoslavia, disputata in violazione delle sanzioni internazionali, Fischer divenne un ricercato negli Stati Uniti. Visse per anni da latitante, rilasciando dichiarazioni sempre più controverse, oscillando tra il fanatismo e la totale alienazione. Visse tra Giappone, Ungheria e Filippine, sempre più isolato. Nel 2004 fu arrestato a Tokyo per problemi di passaporto e rischiò l’estradizione negli Stati Uniti, ma l’Islanda, la stessa Nazione che lo aveva visto trionfare nel 1972, gli concesse la cittadinanza. Passò lì gli ultimi anni della sua vita, lontano dal mondo, fino alla morte nel 2008.
Eppure, il suo impatto resta immenso. Fischer ha reso gli scacchi una disciplina da prima pagina, ha ispirato generazioni di giocatori e ha mostrato che la mente, da sola, può essere più affilata di qualsiasi arma. E poi c’è quella partita, la partita del secolo, giocata nel 1956 contro Donald Byrne, in cui un giovanissimo Fischer sacrificò la regina per poi demolire l’avversario con una serie di mosse memorabili. Un capolavoro che ancora oggi lascia a bocca aperta.
Bobby Fischer fu un enigma, un genio senza pace, un uomo che trovò nella scacchiera il suo campo di battaglia e nel mondo reale il suo più grande avversario. Oggi lo ricordiamo non solo per le sue vittorie, ma per aver reso gli scacchi quello che sono oggi: una sfida che va ben oltre il gioco.
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