Ucraina e Venezuela, la stessa tragedia
Ucraina e Venezuela sono geograficamente lontane e hanno poco in comune. Le unisce però la stessa tragedia: un popolo che insorge contro un regime autoritario ed oppressivo e il regime che reagisce con una feroce repressione.
In Ucraina, non dimentichiamolo, la rivolta è nata quando il regime ha fatto marcia indietro sull’accordo di associazione già definito con l’Unione Europea, optando per un più stretto accordo con la Russia. Vi era, dunque, alla radice, una questione di identità, per un Paese che è al limitare tra due mondi, quello occidentale e quello orientale: una parte degli ucraini si sente e vuole essere europea, identificando nell’Europa le garanzie di democrazia, rispetto dei diritti umani, libertà di pensiero, civiltà occidentale (come ho scritto in altra occasione, che lezione per i miserabili antieuropei di casa nostra!); un’altra opta per la sua anima russa. Questo contrasto deve risolversi con scelte di equilibrio, senza voltare le spalle né all’Europa né alla Russia, ma prendendo il meglio delle due opzioni. Un Paese davvero libero e indipendente deve poter condurre rapporti su due fronti. A renderlo difficile sono state però la brutale repressione che ha trasformato una richiesta “europea” in una protesta appassionata, viscerale, violenta, in cui ogni vittima ha scavato un fossato di sangue e di vendetta, e la ferrea mano di Putin, erede della tradizione zarista e sovietica. Mosca non ha mai veramente ssimilato la dissoluzione dell’impero e sta cercando di ricostituirlo in forma più moderna, basata non più sull’occupazione militare ma sulla supremazia economica, culturale e politica, servendosi delle armi che ha in mano: il prezzo dell’energia e i prestiti finanziari. Da tempo Putin, brandisce la sua Unione euro-asiatica come uno strumento per ricostituire, in forma diversa, l’antico impero dominio. In questo ambizioso disegno, l’Ucraina è un pezzo strategicamente essenziale. Paese di più di 40 milioni di abitanti, di antica cultura e buone potenzialità economiche, è collocato alla cerniera dei due mondi. Non è tra i due l’ago della bilancia, ma poco ci manca: un’Ucraina integrata nella NATO sarebbe ovviamente inaccettabile per la Russia; ma un’Ucraina nuovamente vassalla della Russia costituirebbe un grave pericolo per tutta la parte orientale dell’Unione Europea, Polonia innanzitutto, Romania, ma anche Germania, e per l’insieme della NATO (cosa impedirebbe un ritorno dell’esercito russo nell’antico feudo?).
Non stupisce quindi che l’UE sia attivamente intervenuta nella crisi, con l’appoggio di Obama (anche se non di tutta la sua diplomazia, come hanno messo in evidenza le insolenze di una sua ambasciatrice, che hanno fatto pensare che, mentre l’Europa cercava una via d’uscita negoziata, i duri di Wahington cercassero il braccio di ferro con Mosca).
Sullo sfondo, c’era la minaccia, non ancora dissipata, di una spaccatura geografica che portasse a due Ucraine: una occidentale stabilmente inserita nel l’area europea, l’altra orientale infeudata alla Russia. È inevitabile questa rottura? No, se si agisce da tutte le parti con ragionevolezza. La Russia merita di essere rassicurata sul piano della sicurezza militare (non truppe o basi occidentali in Ucraina) e i rivoltosi devono comprendere che non si può cancellare quella parte del Paese che, per lingua e cultura, si sente russa e non accetterebbe una rottura con Mosca. Ma il regime e il suo protettore moscovita devono capire che non è possibile opporsi alla volontà di milioni di persone, giovani, anziani, uomini, donne, di avvicinarsi a quell’Europa che coniderano la loro casa. La faticosa mediazione condotta da Germania, Francia, Polonia, assistita dalla concreta minaccia di sanzioni, sembra aver ora portato a un accordo che è, nell’origine, forma e contenuti, una vittoria per l’Europa. Ogni accordo naturalmente è fragile e le prime reazioni russe sono state di ostinazione rabbiosa. Prepariamoci ad altri alti e bassi. Ma non c’è alternativa. Se l’accordo non sarà rispettato, si tornerà a una guerra civile ancora più sanguinosa e all’acutizzarsi di una tensione che né russi né europei dovrebbero volere.
In Venezuela, il contrasto è tra un regime populista (che in quattordici anni ha quasi distrutto l’economia, prodotto l’inflazione più alta al mondo, calpestato la democrazia, imposto una censura di fatto, perseguitato gli oppositori e la stampa libera, permesso la diffusione della corruzione e del crimine ordinario) e una larga parte della popolazione che reclama onestà, sicurezza, una politica economica responsabile, il rispetto della libertà di pensiero e di espressione. Non c’è, dietro, un conflitto Est-Ovest (la Russia non ha manifestato alcuna speciale affinità con il regime chavista, che si ha invece trescato coll’Iran al tempo di Ahmadinejad), ma c’è certamente un contrasto di fondo tra civiltà occidentale e demagogia populista. Contrasto, questo, che purtroppo divide l’America Latina. Da una parte, governi che del populismo hanno fatto il loro credo: Bolivia, Ecuador, Nicaragua, purtroppo anche l’Argentina (contro il sentire della gente, in grande maggioranza attaccata alla libertà e alla democrazia). Questi governi, non solo giustificano, ma applaudono e incoraggiano la feroce repressione condotta dal regime di Maduro, accreditando il fantasma di cospirazioni imperialiste e restauratrici e della conseguente difesa di una pretesa “rivoluzione” (nell’occasione, non socialista, ma “bolivariana”). Dall’altra parte ci sono Paesi come il Messico, il Cile, il Perù, la Colombia che, senza giustificare la violenza oppositrice, condannano la repressione e chiedono l’apertura di un dialogo democratico. In mezzo i Governi di Uruguay e Brasile, di segno “socialista” ma in realtà praticanti una politica economica responsabile e un assoluto rispetto della libertà di pensiero, che da una parte non vogliono togliere legittimità al regime di Caracas, dall’altra parte non possono avallare una repressione così cruenta. Tali divisioni rendono una via d’uscita più difficile. I tradizionali organi panamericani, che dovrebbero offrire un intervento mediatore, sono per ora inoperanti. L’Organizzazione degli Stati Americani è di fatto paralizzata, con gli Stati Uniti e il Canada a costituire la punta più critica per il regime chavista. Il MERCOSUR, presieduto in questo momento proprio dal Venezuela, non può muovere un dito a favore del la ragione. E il CELAC (che riunisce sudamericani e caraibici), stante la presenza di Cuba e i dissensi nel suo seno, si è autocondannata all’irrilevanza.
In queste condizioni, lasciato sostanzialmente libero di fare quello che gli pare, è improbabile che Maduro rinunzi alla forza e si apra al dialogo. Ma forse è l’ora che l’Occidente, e soprattutto gli Stati Uniti, si manifesti con atti politici, diplomatici ed economici chiari e concreti. Non penso che si debba lasciare impunemente un regime condannare il suo popolo – un popolo a vocazione e cultura occidentali – a molti altri anni di regresso economico, politico e civile. Com’è successo a Cuba.
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